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Così la snack culture nutre la nostra fame "bulimica" di contenuti

snack culture come cambia i consumi mediali

Contenuti brevi e dal consumo immediato, fruiti con sempre più frequenza e nel corso di tutta la giornata: è l'era della snack culture.

Le infinite maratone di serie TV non fanno per tutti o, perlomeno, non in tutti i momenti. Se c’è un’espressione che descrive bene le nostre abitudini quanto a consumo di prodotti culturali, a scopo informativo o d’intrattenimento, è infatti “snack culture“.

Qualche storia su Instagram, una scrollata al feed di Facebook, un paio di tweet, un’occhiata veloce a TikTok o, se proprio c’è il tempo, un video di pochi minuti su YouTube: ripetuto più volte al giorno, sarebbe tutto quello di cui abbiamo bisogno per soddisfare il nostro fabbisogno quotidiano di cultura e intrattenimento. O quasi: come nel nostro regime alimentare gli spuntini sempre più frequenti non hanno sostituito del tutto i pasti principali, così anche nella nostra dieta mediatica non possono mancare – e lo conferma la maggior parte delle indagini, anche intergenerazionali, sui consumi mediatici degli italiani per esempio – contenuti corposi e di long form come film e serie TV appunto ma anche video, blog post, articoli di giornali in formato tradizionale. La snack culture insomma, vista da vicino, assomiglia a una bulimia da contenuti: sempre connessi, sempre onlife come siamo, consumiamo ogni giorno grandi moli di informazioni di diversa natura, forse più di quante siamo davvero in grado di assimilarne.

Dalle origini della snack culture alla sua versione contemporanea

L’origine dell’espressione, del resto, non è casuale. Tra i primi a utilizzarla fu, nel 2014, “The Korean Times” in riferimento a quello che sembrava essere un non trascurabile trend dell’industria culturale sudcoreana del momento: la penetrazione degli smartphone si era fatta piuttosto alta (di circa il 77%) e, quasi contemporaneamente, l’utilizzo dei telefoni cellulari aveva assunto per la prima volta anche uno scopo ricreativo. Tanto che i commentatori si convinsero che quella alimentare fosse appunto l’unica metafora in grado di descrivere bene il fenomeno: come gli spuntini, soprattutto se industriali, anche i prodotti culturali moderni richiedevano di poter essere consumati in ogni momento e anche fuori casa.

Se si guarda a cosa succede in un minuto su Internet oggi, l’espressione snack culture appare persino in qualche misura manchevole. In appena sessanta secondi ci sarebbero, infatti, quattro milioni e mezzo di video visti su YouTube, oltre due milioni di snap creati su Snapchat, quasi 700mila ore di contenuti fruiti su Netflix, solo per fare qualche esempio: la dimostrazione, nei fatti, che i consumi culturali sono diventati frammentati, sì, ma anche più uniformemente distribuiti durante la giornata. Consumiamo cioè musica, TV, libri – o, perlomeno, contenuti che vi assomigliano nelle forme – per sempre meno tempo di seguito ma con sempre più frequenza durante tutta la giornata, senza che ci siano fasce orarie standard deputate ai consumi mediali, come il vecchio drive time d’oro per la radio o la prima serata televisiva.

Così tecnologia e piattaforme hanno cambiato la nostra idea di tempo libero (e i nostri consumi culturali)

La rivoluzione è certamente tecnologica: non ci sarebbe snack culture, infatti, senza l’aumento di device multi-scopo come i più moderni smartphone o quello delle connessioni mobili. Come già si accennava, del resto, è un modello di consumo tipicamente interstiziale: ci si collega alla IGTV mentre si è in treno, si guarda un breve tutorial di cucina mentre si è in attesa della metro a fine giornata e prima di tornare a casa a preparare la cena, si ascolta un podcast in fila alla posta o si chiede al proprio assistente digitale di leggere le ultime notizie mentre si è impegnati nelle faccende domestiche, di fatto facendo diventare tempo libero potenzialmente ogni momento della giornata. Non stupisce, così, che una delle più recenti frontiere del mobile entertainment sia quella dell’intrattenimento in auto, con sempre più case automobilistiche che dotano i propri modelli di punta di sistemi ad hoc per divertire i passeggeri in tutta sicurezza. Anche le piattaforme giocano però un ruolo fondamentale nel mettere a disposizione, se non addirittura favorire, strumenti per la creazione di contenuti di facile fruizione e adatti a un consumo distratto, che avvenga in contemporanea ad altre attività quotidiane: è in questo senso che può essere letta, per esempio, la popolarità dei video o quella del formato verticale adatto proprio alla fruizione da smartphone.

La fede nelle capacità di multitasking ha fatto il resto: facciamo snack a base di contenuti divertenti o persino informativi e di approfondimento che troviamo in Rete mentre siamo impegnati in altre attività di qualsiasi natura (o quasi), come a sottolineare che non c’è più un limite netto tra la nostra vita online e la nostra vita offline e che tutto fa parte di un regime di vita onlife. Il corollario è che potremmo sentirci sovraccarichi di stimoli, di informazioni (è quello che in gergo è detto overload informativo), di esperienze da processare. Non a caso i più allarmisti collocano la snack culture tra quei fenomeni ad alto rischio, come l’hikikomori o la FOMO, soprattutto per gli effetti negativi che possono avere sugli utenti.

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