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L'AGCOM pensa a un regolamento contro l'hate speech e chiama a consulto i professionisti dei media

Regolamento contro l'hate speech: la proposta AGCOM

Il Garante per le Comunicazioni ha pronta una bozza di regolamento contro l'hate speech ma chiama "a consulto" i professionisti dei media.

Dopo l’indagine conoscitiva sulle fake news, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni fa i conti con un altro fenomeno che, se è tipico degli ambienti digitali, non sembra risparmiare però media più tradizionali come televisione, radio, giornali. Non di rado tribune politiche, approfondimenti radiofonici ed editoriali avallano, infatti, posizioni estremamente polarizzate, irrispettose di un dibattito pubblico realmente sano e inclusivo, quando non addirittura offensive nei confronti delle minoranze e tutto ciò non può che riflettersi – in negativo – sulla qualità dell’informazione. La proposta di regolamento contro l’ hate speech dell’AGCOM, così, parte proprio dal coinvolgere direttamente i principali attori e soggetti mediatici.

Che cos’è, che principi rispetta e a chi si rivolge il regolamento contro l’hate speech dell’AGCOM

La delibera 25/19/CONS si rivolge, infatti, a fornitori di servizi media audiovisivi e radiofonici, di programmi di informazione e intrattenimento e – aspetto tutt’altro che secondario – ai fornitori di piattaforme per la condivisione di video e li invita a una consultazione pubblica. L’obiettivo? Partire da dati, insight, esperienze concrete e dirette e, se possibile, buone pratiche già avviate per arrivare a stendere un regolamento contro l’hate speech davvero condiviso.

Regolamento di cui, però, nella stessa delibera esiste già una bozza. Parole d’ordine? Rispetto della dignità umana, principio di non discriminazione, libertà di espressione, pluralismo dei mezzi d’informazione. In accordo, tra l’altro, con una serie di dispositivi internazionali, comunitari, di autoregolamentazione – dalla Carta di Roma alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali–CEDU – già accettati dall’Italia e dai suoi professionisti dell’informazione, per quanto forse non sempre rispettati a dovere.

Il messaggio, velato, sembra essere insomma che hate speech e discorso dell’odio si combattono riscoprendo i principi di un’informazione sana, corretta e, in qualche senso, persino più slow.

Tra le misure di contrasto individuate dall’AGCOM per combattere l’hate speech e che chi lavora nel campo nei media sarà tenuto a rispettare, così, c’è per esempio l’attenzione al contesto in cui si inserisce ogni contenuto, ogni informazione. Tradotto? Significa che vanno evitati paratesti – come titoli, immagini, didascalie, elementi grafici – fuorvianti e che possano risultare offensivi o discriminatori nei confronti di minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali, ecc. E, anche, che non si dovrebbe mai confondere il caso singolo con generalizzazioni che pongano intere comunità o interi gruppi a rischio discriminazione. Ancora, il regolamento contro l’hate speech dell’AGCOM chiede a chi si occupa d’informazione di «rivolgere particolare attenzione alla selezione e alla diffusione di notizie, di immagini e di ogni altro contenuto suscettibile anche solo di alimentare pregiudizi, generalizzazioni, stereotipi o convinzioni basate su discriminazioni» e di premurarsi per evitare che contenuti e informazioni condivisi siano «imprecise, sommarie, fuorvianti e tendenziose», non basate su dati reali e verificati o a rischio di creare allarmismo ingiustificato e confusione nel pubblico destinatario. Se ciò dovesse avvenire, per quanto in completa buona fede, sarà premura del fornitore in questione di correggere «tempestivamente e accuratamente» gli errori commessi.

Come evitare il discorso dell’odio quando si parla di immigrazione

Nella lunga relazione introduttiva, l’Autorità Garante fa riferimento esplicito a un tema come l’immigrazione che è stato oggetto in questi anni, soprattutto in Italia, di narrazioni controproducenti. Non mancano, infatti, esempi di come la trattazione mediatica di alcuni grandi casi di cronaca abbia arbitrariamente creato legami e addirittura nessi causali, di fatto inesistenti, tra flussi migratori e incidenza di malattie o reati. Persino i numeri che riguardano sbarchi e migranti in Italia sono vittime di una narrazione faziosa che non riesce nell’inquadrare correttamente la questione. La responsabilità di chi si occupa di informazione in questo caso? Consiste nel ridurre, al minimo, la distanza tra percezione e realtà e nel non dare ulteriore dito a un discorso pubblico che è già di per sé estremamente polarizzato.

Se nella stessa definizione di hate speech la componente verbale e le scelte linguistiche sono preponderanti – se quando si parla di discorso dell’odio si parla, cioè, specificatamente di espressioni che possono incitare o giustificare l’odio su base etnico-razziale, linguistica, religiosa, politica, di orientamento sessuale, ecc. – il regolamento in fieri dell’AGCOM prevede che, soprattutto se le trasmissioni televisive o radiofoniche o le dirette streaming sono in diretta, venga rispettata la correttezza nel linguaggio ed evitata quanto più possibile la volgarità, l’arroganza, la provocazione gratuita o a solo scopo di spettacolarizzazione.

In tutti i casi, comunque, qualora i soggetti in questione non rispettino i «limiti» previsti dal regolamento contro l’hate speech, starà al garante poter procedere – sia d’ufficio, sia su segnalazione – con sanzioni e penalizzazioni.

Gestori e fornitori di piattaforme video: che responsabilità quando si tratta di hate speech?

Interessante, nella delibera dell’AGCOM, l’attenzione posta ai meno tradizionali fornitori di piattaforme per la condivisione di video. In molti casi infatti manca ancora, e non solo in Italia, un approccio univoco quando si tratta di definire la responsabilità delle piattaforme e dei loro gestori nei confronti di contenuti inappropriati o potenzialmente pericolosi. L’approccio di soft law ha portato fin qui a demandare a linee guida e policy di ogni singola piattaforma l’individuazione, e la conseguente sanzione, di comportamenti scorretti da parte degli utenti.

Le proposte dell’AGCOM per contrastare l’hate speech prevedono, invece, un impegno diretto di queste stesse piattaforme per l’individuazione e la segnalazione – allo stesso Garante – di illeciti e responsabili e nel fornire ogni tre mesi un report dettagliato delle attività svolte per il monitoraggio e il contrasto dei contenuti portatori di odio online.

Tanto le piattaforme per la condivisione di video quanto i fornitori più tradizionali di trasmissioni e contenuti mediatici sono incentivati poi a realizzare campagne di sensibilizzazione che puntino all’inclusione sociale e alla promozione della diversità, partendo appunto da una più libera espressione, on e offline. Come per le iniziative contro le fake news, però, la domanda è spontanea: basteranno davvero a combattere il discorso dell’odio? O saranno solo dei (buoni) punti di partenza?

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