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Così gli addetti ai lavori (e non solo) stanno provando a darsi più regole sulla pubblicità di "cibo spazzatura"

Pubblicità di cibo spazzatura: regole nuove e stretta in Italia

Un'importante novità è in Italia l'autoregolamento dell'IAP che invita a fare attenzione quando pubblicità su prodotti e stili alimentari sono rivolte ai bambini. Altri paesi si stanno muovendo in maniera più drastica, provando a vietare del tutto i messaggi pubblicitari sul "cibo spazzatura", soprattutto online.

Arrivano anche in Italia le prime regole sulla pubblicità di cibo spazzatura e prodotti industriali eccessivamente ricchi in grassi, sale o zuccheri (quelli che gli esperti chiamano HFSS), specie se rivolta ai bambini o possibile foriera di abitudini alimentari scorrette e pericolose. A promuoverle l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria – IAP nella convinzione che una «comunicazione commerciale responsabile e corretta possa dare un contributo rilevante alla tutela dei minori dal rischio obesità, sovrappeso» e disturbi alimentari.

Cosa dice il nuovo autoregolamento pubblicitario a proposito di bambini, alimentazione e stili di vita corretti

Il nuovo regolamento, in perfetto accordo con la missione dell’Istituto, avrà un valore solo autodisciplinante e dovrebbe rappresentare, cioè, come gli altri codici di condotta dello stesso Istituto del resto, una sorta di dichiarazione di intenti con cui professionisti della comunicazione, pubblicitari e marketer si impegnano in prima persona a evitare «comunicazioni commerciali audiovisive non appropriate» a tema alimentazione.

Le regole dell’IAP sulla pubblicità di cibo spazzatura e stili alimentari scorretti richiamano, così, i principi di lealtà e non ambiguità già previsti per tutte le comunicazioni commerciali, specie se hanno come destinatari minori di 13 anni. Quando si promuovono prodotti alimentari cioè, si legge nel nuovo autoregolamento pubblicitario approvato a febbraio 2021, le informazioni fornite devono essere «oneste, veritiere e corrette» e si devono evitare «esagerazioni non palesemente iperboliche, specie per quanto riguarda le caratteristiche nutrizionali e gli effetti del prodotto».

Ancora, bisognerà fare in modo che i messaggi pubblicitari non inducano, anche implicitamente e chiaramente erroneamente, a credere che il mancato consumo di un certo alimento costituisca di per sé una condizione di inferiorità per il bambino o in qualche misura una mancanza da parte di chi si occupa della sua alimentazione.

L’IAP vuole vietare la pubblicità sul cibo spazzatura?

Soprattutto nel caso dei già citati cibi HFSS, e cioè degli alimenti industriali ricchi in sale, zuccheri, grassi, acidi grassi trans e via di questo passo, pubblicitari e marketer dovrebbero evitare soprattutto di accentuarne le presunte qualità positive; permane però la possibilità di far riferimento a caratteristiche migliori rispetto ad altri prodotti simili o migliorie rispetto a versioni precedenti (resta, cioè, la possibilità di usare frasi come la classica “con il 30% di zucchero in meno” che campeggia su un buon numero di prodotti light e prodotti fit, che però comunque può essere ambigua e interferire con le scelte del consumatore).

L’idea non è vietare tout court la pubblicità di cibo spazzatura o prodotti industriali e alimenti confezionati – decisione che non spetterebbe a un ente di settore come l’IAP –  quanto avere un atteggiamento più cauto quando gli stessi messaggi commerciali sono rivolti a bambini e preadolescenti, per via via della facilità con cui da questi soggetti gli stessi rischiano di essere travisati. Da qui anche l’esigenza di far in modo che la pubblicità sia immediatamente riconoscibile come tale, che le informazioni fornite non possano in alcun caso essere scambiate per consigli medici e di scongiurare che i destinatari del messaggio siano portati a pensare che altri soggetti, oltre a genitori e medici curanti, possano dar loro consigli sull’alimentazione. No assoluto dell’IAP ancora a messaggi che rischiano di promuovere uno stile di vita sedentario e poco attivo, come le immagini di bambini che mangiano da soli davanti a un PC.

Il nuovo codice di disciplina su pubblicità di cibo spazzatura e abitudini alimentari dei bambini vale naturalmente dentro e fuori la Rete e, cioè, indipendentemente da quale sia il canale su cui aziende e marketer decidono di investire i propri budget (il testo dello IAP parla esplicitamente de «la pubblicità c.d. tabellare, le promozioni, le sponsorizzazioni, il direct marketing, le comunicazioni commerciali diffuse online»).

C’è davvero un problema di sovraesposizione a pubblicità di cibo spazzatura online?

Anche se non riferiti all’Italia ci sono dati interessanti in questo senso. La maggiore esposizione a pubblicità di cibo spazzatura e abitudini alimentari scorrette avverrebbe oggi online, forse anche in virtù del fatto che maggiore è ormai il tempo che si trascorre in Rete rispetto a quello speso davanti alla TV o sfogliando un giornale.

Secondo uno studio del Cancer Research UK, l’86% tra chi ricorda di aver visto messaggi pubblicitari di snack, merendine e altro cibo spazzatura in offerta racconta di essersi imbattuto negli stessi su Facebook, su Instagram, su Snapchat, su Twitter e cioè principalmente mentre utilizzava i social media . È una percentuale a cui si aggiunge un 64% che avrebbe visto alimenti industriali e poco sani da un punto di vista nutrizionale “promossi” da influencer e volti ben noti della Rete.

Proprio la questione delle web star, dei content creator professionisti e più in generale degli utenti con un buon seguito che si fanno promotori di regimi e stili alimentari o che letteralmente pubblicizzano alimenti e prodotti sostitutivi dei pasti è una delle più spinose quando si tratta di incentivare una cultura della buona alimentazione e di uno stile di vita sano. Imporre agli influencer doveri di trasparenza, e cioè di utilizzare gli hashtag #sponsored o altri elementi di segnalazione simili quando i proprio contenuti sono frutto di una collaborazione commerciale, è un buon punto di partenza. Alcune piattaforme, però, hanno dovuto ricorrere a misure più drastiche, come vietare le pubblicità di integratori alimentari o oscurare hashtag usati per challenge e sfide social pericolose perché chiedevano ai partecipanti di imitare gesti tipici di anoressia o bulimia.

Un accesso di allarmismo o uno dei pochi modi efficaci per scongiurare che, soprattutto i più giovani, si imbattano in Rete in messaggi scorretti riguardo all’alimentazione e al proprio di stile di vita? Sempre in riferimento alla popolazione inglese, è stato stimato che gli under 16 sono stati esposti nel 2019 a 15 miliardi di pubblicità di cibo spazzatura online contro i 700 milioni dell’anno precedente (e sono stime che non tengono conto del boom di traffico Internet dall’inizio della pandemia e di come sia aumentata la total digital audience nel corso del 2020).

Perché dall’Inghilterra arriva la proposta di bannare la pubblicità online di cibo spazzatura

È anche in virtù di dati come questi che l’Inghilterra vuole bannare l’online advertising di junk food. La proposta, annunciata alla fine del 2020 dopo che di simili ne erano state avanzate già in estate, è attualmente in fase di discussione. Se dovesse passare, potrebbe portare allo stop di qualsiasi forma di ads su Facebook o di risultato a pagamento su Google e di remarketing con oggetto alimenti industriali o catalogati come troppo ricchi in sale, zuccheri, grassi. Come sottolinea The Guardian, però, non è detto che le cose vadano meglio per avocado, marmellata o per prodotti cult della colazione all’inglese come la Marmite per esempio. Può sembrare per certi versi una misura draconiana, ma molto può aver contato la consapevolezza di quanto diffusa sia nel Paese l’obesità infantile: ancora secondo The Guardian si tratterebbe di un problema che riguarda un bambino inglese su tre.

Non mancano, poi, precedenti di paesi che hanno provato a scoraggiare regimi alimentari scorretti e veri e propri disturbi alimentari partendo proprio da scongiurarne una rappresentazione mediatica distorta di tutto ciò che ha a che vedere con il cibo. Non è passato molto, per esempio, da quando la Cina ha proposto di vietare il mukbang, le seguitissime abbuffate in diretta streaming.

Un approccio “più aperto”, come in parte quello adottato in Italia, potrebbe partire da co-responsabilizzare le aziende produttrici di alimenti e trovare con l’aiuto dei reparti marketing una via davvero “etica” al marketing nutrizionale.

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