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Cosa dice la nuova proposta di legge contro l'hate speech e perché contrastare l'odio online richiede uno sforzo collettivo

Presentata alla Camera a inizio marzo 2021, la nuova proposta di legge contro l'hate speech dà più responsabilità alle piattaforme.

Presentata alla Camera a inizio marzo 2021, la nuova proposta di legge contro l'hate speech dà più responsabilità alle piattaforme.

C’è in Italia una nuova proposta di legge contro l’ hate speech (o, meglio, «per la prevenzione e il contrasto della diffusione di manifestazioni d’odio mediante la rete internet», com’è attualmente rubricato il testo presentato alla Camera) che dovrebbe rendere più facile per le vittime segnalare contenuti illeciti o offensivi e vederli rimossi o oscurati e che traccia profili di co-responsabilità per istituzioni, authority, singoli utenti e piattaforme nel contrasto dell’odio online.

come la nuova proposta di legge contro l’hate speech prova ad arginare il fenomeno

Presentata ai primi di marzo 2021 da un gruppo di deputati guidati dall’ex presidente della Camera Laura Boldrini (che è stata in prima persona tra quei politici italiani spesso vittime di linguaggio dell’odio, offese e minacce in Rete), la proposta di legge contro l’hate speech ricalca quelle che sono le attuali previsioni per i casi di cyberbullismo della legge n. 71/2017: una legge dall’iter parlamentare complesso, come non è escluso che lo sia anche quello della nuova proposta.

Alla vittima di discorsi dell’odio, come alla vittima di bullismo digitale, è data possibilità infatti di segnalare al gestore del sito i «contenuti manifestamente illeciti» e chiedere che siano adottate «tutte le misure dirette a impedir[ne] l’accesso o […] a rimuover[li]». Ciò comporta la necessità per le piattaforme di predisporre un meccanismo di segnalazione dei contenuti quanto più semplice, facilmente accessibile, trasparente ed efficace possibile e, soprattutto, di dotarsi di «un organismo di autoregolamentazione composto da un numero di analisti esperti» che possa esprimere giudizi di merito anche nei casi più controversi.

Stando alla nuova proposta di legge contro l’hate speech, del resto, i gestori possono direttamente segnalare i contenuti manifestamente illeciti e lesivi alla Polizia Postale e hanno comunque l’obbligo di rispondere alla segnalazione dell’utente entro 24 ore, trascorse le quali quest’ultimo può rivolgersi con le stesse pretese di oscuramento, segnalazione e rimozione dei contenuti in questione al Garante per la Privacy.

Authority che ha, a propria volta, la possibilità di comminare sanzioni fino a 5 milioni di euro a piattaforme e gestori che non rispettano le previsioni per il contrasto dell’odio in Rete. Quest’ultimo passaggio è forse tra i più innovativi e capaci in potenza di colpire là dove le big tech sembrano al momento più vulnerabili: il timore di sanzioni pecuniarie milionarie è quello che sembra spingere, infatti, molte piattaforme e servizi digitali sempre più verso l’anonimizzazione dei dati degli utenti (per via dei quali una sentenza del Consiglio di Stato ha sostenuto recentemente che Facebook non può dirsi gratuito) e la rinuncia ai cookies di terze parti per esempio.

Perché contrastare l’odio online è materia (culturalmente oltre che legalmente) complessa

Da un punto di vista più “general-preventivo”, la nuova proposta di legge contro l’hate speech sembra limitarsi invece a formalizzare quello che già c’è e (di buono) è stato fatto per provare ad arginare l’odio online.

Alle piattaforme e ai loro gestori è fatto obbligo di «contribuire alla prevenzione e al contrasto di ogni manifestazione di odio nella rete, compresa la diffusione di notizie false, finalizzata alla lesione della dignità e della libertà della persona, alla discriminazione e alla violenza per motivi di etnia, nazionalità, religione, orientamento sessuale, sesso, genere, identità di genere, disabilità, malattie gravi, età e condizione di migrante, di rifugiato e di richiedente asilo».

All’atto di iscrizione alla maggior parte dei servizi digitali, però, è da tempo chiesto agli utenti di accettare policy e linee guida che vietano esplicitamente contenuti offensivi, discriminatori o capaci di incitare alla violenza (tra le piattaforme più frequentate dai giovanissimi, per esempio, TikTok ha degli standard di comunità piuttosto rigorosi contro l’odio online) e, negli ultimi tempi, le big tech hanno messo in atto un certo “interventismo”, come nel segnalare tweet infondati di politici che potevano inficiare la buona riuscita delle operazioni di voto, nel “depiattaformizzare” questi ultimi o congelarne momentaneamente pagine e account per evitare la diffusione di notizie manipolate o, ancora, nell’intervenire contro post e gruppi negazionisti che rischiavano di compromettere la buona riuscita delle campagne vaccinali.

Questo interventisimo è costato loro, però, accuse di essere poco bipartisan e ancor meno super partes.

Ogni tentativo di contrastare l’hate speech richiede – come sottolinea anche il rapporto finale del Gruppo di Lavoro sull’odio online istituito nella scorsa legislatura dalla Ministra per l’ innovazione tecnologica e la digitalizzazione – la massima cautela perché «su questa materia si osservano diritti in tensione tra loro, come la libertà di espressione, il diritto alla privacy, il diritto al rispetto della libertà di pensiero, coscienza e religione, il diritto di proprietà e la libertà di mercato, il diritto a essere difesi contro le violenze».

La stessa nuova proposta di legge contro l’hate speech della Boldrini riconosce di essere di fronte a un fenomeno complesso, forse però più per gli effetti che nei numeri: nonostante sembra ci sia stato un exploit di hate speech e online shaming durante la pandemia, secondo uno studio poco più del 3% dei tweet in italiano conterrebbero effettivamente offese, insulti o minacce.

Tale fenomeno si muove al confine, labile, tra la libertà di parola costituzionalmente garantita e il rischio di istigazione a condotte discriminatorie, atti persecutori, ecc. per cui pure già esiste tutela all’interno dell’ordinamento italiano.

Agli strumenti operativi con cui la vittima di hate speech può tutelare se stessa è necessario affiancarne, insomma, alcuni educativi e che spingano gli utenti, di tutte le età, a comportarsi da buoni cittadini digitali, evitando anche in Rete condotte che nella vita di tutti i giorni sarebbero scoraggiati a mettere in pratica dal rischio di essere scoperti, dal danno reputazionale che ne potrebbero subire e via di questo passo.

La nuova proposta di legge contro l’hate speech prevede così, per esempio, per quanto con una previsione al momento vaga, che il ricavato dalle sanzioni comminate alle piattaforme possa essere destinato alle scuole per attivare percorsi di educazione civica digitale e altre attività preventive che coinvolgano anche le famiglie o le aziende (se è vero, come sottolinea anche il già citato rapporto finale del gruppo di lavoro sull’odio online, che offese, insulti e altre forme di hate speech sono molto comuni anche tra colleghi di lavoro e come forme di mobbing ).

La proposta di legge contro l’hate speech italiana e come si stanno muovendo gli altri Paesi

Se questa nuova proposta di legge contro l’hate speech si trasformerà in legge (i tempi come si accennava sono lunghi e il risultato tutto tranne che scontato se si considera che, come sottolinea Wired, nel passato recente della scorsa legislatura poco più dell’1% dei disegni di legge di iniziativa parlamentare è arrivato a fine iter), si tratterà comunque di un punto di svolta importante.

Fin qui infatti in Italia contrastare l’odio online è stato perlopiù questione di good willingness delle piattaforme, di forme di autoregolamentazione da parte dei professionisti dell’informazione, come nel caso del regolamento AGCOM contro l’hate speech, o di iniziative da parte di soggetti non istituzionali come “Odiare Ti Costa”, “Stop alle offese!” o il nuovo portale della Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni dell’odio, realizzato con il supporto di Amnesty International e all’interno del quale è possibile trovare informazioni e strumenti utili nel caso in cui si sia stati vittime di hate speech o si voglia aiutare qualcuno che lo è stato.

L’eventuale legge italiana contro l’hate speech non sarebbe, però, la prima in assoluto. Come ricorda ancora il gruppo di esperti interpellati dal Ministero, la Germania è stato il primo paese europeo a dotarsi di una norma simile già nel 2018, non senza qualche criticità che richiede ora, a tre anni dall’adozione, di essere adeguatamente rivista. La legge francese, approvata subito dopo quella tedesca, sull’hate speech è stata impugnata dal Consiglio Costituzionale. Se l’Italia lavora a una proposta di legge contro l’hate speech, altri movimenti simili ci sono stati in questi mesi anche in Spagna, in Austria, in Polonia per esempio.

Per evitare il rischio che i paesi europei camminino a velocità diversa anche per quanto riguarda il contrasto dell’odio online, così, è possibile che a uniformare il passo arrivino i diktat del nuovo Digital Services Act europeo, quando approvato. Anche in questo si sa ancora poco su come sarà fatto, ma secondo gli esperti alcuni punti centrali potrebbero riguardare la responsabilità di gestori e prestatori di servizi, degli obblighi specifici di necessaria diligenza in capo agli stessi e ad altri soggetti individuati, più possibilità di cooperazione e coordinamento tra le autorità competenti. In gioco, del resto, c’è la possibilità di costruire un ambiente digitale davvero «sicuro, certo e affidabile, dove i diritti fondamentali sanciti dalla Carta [dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ndr] siano effettivamente protetti».

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