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Come la blockchain cambierà lo storytelling: prospettive e futuri possibili

come la blockchain cambierà lo storytelling

Gli esperti concordano sull'idea che la blockchain cambierà lo storytelling: abbiamo provato a capire come con l'aiuto di Alberto Maestri.

La blockchain cambierà lo storytelling? E, se sì, come si sta già preparando il mondo del racconto di marca e, più in generale, della produzione di contenuti branded?

Rispondere a domande come queste rischia di non essere semplice, soprattutto se si considera il grande inganno che è stato fin qui il modo stesso di raccontare la blockchain : ai più, infatti, il termine richiama quasi ed esclusivamente l’esistenza di criptovalute come Bitcoin ed Ethereum mentre, più tecnicamente e pur semplificando di molto, la blockchain è solo «un database distribuito – come ha sottolineato in un’intervista ai nostri microfoni durante Mashable Social Media Day Italy + Digital Innovation Days 2018 Alberto Maestri, Chief Content Officer di OpenKnowledge – e, cioè, è un database co-gestito da diversi nodi, non proprietario».

cos'è la blockchain

Fonte: iQuii

In altre parole? Quello che si ha davanti è un paradigma nuovo e più efficace che può funzionare in campi molto diversi, dall’apprendimento alla salute, passando per esempio per la decentralizzazione dei nomi dominio. In una prospettiva come questa non è solo lecito chiedersi se la blockchain cambierà lo storytelling ma, addirittura, ciò diventa desiderabile.

Blockchain e storytelling: quali punti di contatto?

Applicare la blockchain al racconto di marca, giornalistico, ecc. significherebbe così passare «dalla supremazia di qualcosa – un’informazione, un dato – a una condivisione e una collettività che co-gestisce, si auto-regola, si auto-governa», ha proseguito Maestri.

Story Blocks”, uno dei primi studi su come la blockchain contribuirà in futuro e sta già contribuendo già oggi a cambiare la narrativa, sottolinea alcuni altri possibili vantaggi di questo tipo di integrazione. La blockchain, innanzitutto, introduce il principio di scarsità in un mondo, quello digitale, in cui replicabilità e sovrabbondanza hanno fatto fin qui da padroni: ogni blocco d’informazione, infatti, in una blockchain è tracciato e registrato su una sorta di libro mastro. Allo stesso tempo, come già si accennava, in un sistema distribuito come quello tipico della blockchain il processo di creazione non può che essere partecipativo. Cosa implica tutto questo per chi cerca di raccontare una storia? Lo studio si basa sui risultati di tre esperimenti condotti su gruppi diversi di partecipanti, di cui solo una parte aveva esperienze e conoscenze significative nel settore. Soprattutto, lo studio sembra mettere alla prova tre elementi costitutivi del concetto stesso di blockchain: il fantomatico libro mastro, i blocchi di informazioni e di dati e il processo di mining. Gli insight principali hanno a che vedere con la capacità di ogni nodo di mantenere traccia di dati che riguardano l’origine o l’autore per esempio e, ancora, con la facilità di archiviazione di informazioni organizzate in blocchi e con un processo creativo che, per la natura e la struttura stesse dell’ambiente, non può che essere collaborativo. La possibilità di attribuire un contenuto – e nel vasto tema dell’attribuibilità andrebbero incluse anche le questioni che hanno a che vedere con il diritto d’autore – tanto quanto i rimedi contro l’obsolescenza e le logiche e i vantaggi di un processo wiki per la content creation sono temi caldi per chiunque si occupi si storytelling.

Così la blockchain cambierà lo storytelling: la metafora della pizza

Per capire come la blockchain cambierà lo storytelling aziendale, così, la metafora migliore – come suggeriscono su Medium – è quella della pizza. Una pietanza apparentemente semplice come questa, infatti, non è solo la sapiente combinazione di prodotti e materie prime diverse, ma è soprattutto il frutto del lavoro di tanti professionisti diversi. Già così si ha a che fare con blocchi distinti che, se messi in sequenza, contribuiscono a dar vita al prodotto finale. Fin qui, comunque, è stato difficile ricostruire davvero e in tutte le sue fasi l’intera filiera produttiva di una pizza: in mancanza di dati reali e di prima mano provenienti dai produttori, cioè, i consumatori hanno dovuto credere sulla fiducia all’origine bio di pomodoro, farine e altri ingredienti. Semplificando molto, la blockchain promette di raccogliere e conservare informazioni come queste in blocchi: per ogni ingrediente della pizza dovrebbe esserci, cioè, un registro che tiene traccia di ogni singola trasformazione. Per il consumatore è, certo, una garanzia in più sulla qualità del prodotto finito, ma non è difficile immaginare che le aziende possano sfruttare questi stessi blocchi di informazioni per raccontare al meglio il prodotto, dando vita a uno storytelling più avvincente e coinvolgente.

Blockchain, storyworld aziendali e customer journey

Fin qui, ha raccontato ancora Alberto Maestri, c’è stata infatti una sorta di «supremazia narrativa: l’azienda setta un confine di narrazione, di comunicazione e l’utente non ha spazio per capire se effettivamente la storia raccontata è vera, genuina o è un’operazione di sola patina, superficiale». Quando hanno imparato a fare storytelling e a raccontare le loro storie aziendali come fossero storie giornalistiche, le aziende hanno imparato del resto anche come sfruttare al meglio il patto narrativo stabilito con i propri clienti – e, a volte, a infrangerlo – per migliorare la propria immagine o il proprio posizionamento, persino superare crisi reputazionali e ovviamente vendere il proprio prodotto.

In qualche caso è stato l’intento a essere malevolo: per tornare alla metafora della pizza, in un ambiente in cui mancano i sistemi di controllo o, se ci sono, sono accentrati nelle mani dell’azienda, è facile aggirare il cliente, attuale o potenziale che sia, raccontandogli per esempio la storia poco veritiera di materie prime genuine e artigianali anche se la loro reale origine è di tipo industriale. Quando si applica la blockchain al racconto aziendale ciò è praticamente impossibile: la blockchain infatti è «distribuita, sicura, decentralizzata», ha continuato l’esperto e riesce anche dove lo storytelling più tradizionale non riesce e, cioè, nel «creare un buono storyworld e cioè un setting dentro cui una storia di marca viene a vivere e poter stabilire un patto tra brand e persona».

La centralità decantata di tutti i nodi di una blockchain si traduce così, quando applicata allo storytelling aziendale, in valori comuni e distribuiti e in una sorta di coscienza collettiva degli obiettivi e delle issue di marca. Senza contare che se, più pragmaticamente, anche le call to action e i messaggi dell’azienda si fanno altamente personalizzati, è la cosiddetta brand advocacy, e cioè la propensione del consumatore a farsi portatore in prima persona delle storie di brand, che ne risulta aumentata.

Uno storyworld così formato, insomma, rimette le persone al centro. E ciò non può che «intaccare anche la customer experience: quest’ultima consiste nell’insieme di touch point che l’utente va a toccare lungo il suo percorso relazionale con l’azienda e delle reazioni razionali ed emotive che questi punti di contatto generano. Quando abbiamo un’applicazione decentralizzata, sicura e trusted, la relazione – tra utente e brand, durante il customer journey – che ne viene fuori è genuina, trasparente e di maggiore valore», ha concluso l’esperto.

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