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Infodemia cos'è, cosa significa e come contrastarla

Significato di Infodemia

infodemia significato del termine e utilizzi Infodemia è detta la circolazione spasmodica e incontrollata di notizie riguardanti un particolare argomento, in genere di cronaca o attualità o legato a un momento di crisi socio-politica, tra cui è difficile orientarsi e che hanno l’effetto controproducente di creare disinformazione.

Infodemia: qualche definizione

L’espressione è l’italianizzazione di “infodemic“, termine inglese composto di “information” ed “epidemic”, che fu utilizzato per la prima volta per indicare l’epidemia di informazioni, spesso di dubbia natura, che seguì l’emergenza SARS del 2003 (il primo articolo a parlare di infodemia fu allora “When The Buzz Bites Back” di David J. Rothkopf). Di infodemia fu data in quella circostanza una definizione operativa: bastavano pochi fatti ma mischiati in maniera indistinguibile con ipotesi anche remote, voci non confermate, teorie del complotto e via di questo passo per rendere malato – e, come una vera epidemia, nocivo – l’ecosistema dell’informazione. Nell’introdurlo come neologismo del 2020, la Treccani dà a infodemia significato di «circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili». Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal canto suo, sembra aver suggerito una possibile definizione di infodemia parlando della «sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate, alcune no – che ha reso difficile per le persone trovare fonti affidabili» sul contagio da coronavirus nei primi mesi del 2020.

Se l’emergenza coronavirus dei primi mesi del 2020 è tra i migliori esempi di infodemia

Mentre cresceva il numero di casi confermati di COVID-19, infatti, in tutti i paesi coinvolti si moltiplicava anche il numero di comunicati ufficiali da parte delle autorità di pubblica sicurezza locali, di raccomandazioni da parte delle autorità igienico-sanitarie, di dirette dei telegiornali dagli istituti di cura che prendevano in carico i pazienti o – com’è successo soprattutto in Italia – dai confini del cordone sanitario costruito attorno alle città da cui è partito il focolaio e, ancora, di aggiornamenti continui via radio, sulle testate online, da parte delle emittenti all news. A tutto questo sono da aggiungere buzz, passaparola e chiacchiericcio sui social: in qualche caso sono serviti a raccontare l’esperienza diretta e in prima persona di chi ha viaggiato e si è spostato da un paese all’altro nonostante i timori per la nuova influenza da coronavirus, per esempio, o a dare l’opportunità a divulgatori scientifici con un discreto seguito sui social di dispensare consigli davvero pratici riguardo alle giuste precauzioni igieniche o a come affrontare la quarantena; in non pochi casi, però, hanno alimentato allarmismo e psicosi, spesso basandosi tra l’altro su notizie non verificate, semplici voci di corridoio, quando non addirittura su “catene di Sant’Antonio” o su ipotesi complottiste e informazioni volutamente manipolate.

infodemia e coronavirus

La circolazione di informazioni sbagliate e confusionarie su modalità di contagio e possibili precauzioni contro il coronavirus hanno costretto Ministero della Salute e Istituto Superiore della Sanità a diffondere, dopo i primi casi in Italia, quello che è stato ribattezzato come un “decalogo anti-infodemia”.

I sintomi di un’epidemia di informazioni

Già quando venne coniato il termine “infodemia” sembrava chiaro, del resto, che la responsabilità della pandemia di informazioni nei momenti di crisi non potesse essere che una responsabilità condivisa. Guerre, attacchi terroristici, catastrofi naturali o epidemie ma, anche, le crisi politiche per esempio sono momenti infatti in cui diversi soggetti hanno interesse a far sentire la propria voce: autorità e istituzioni, spesso in funzione rassicurante; politici, non di rado per cavalcare semplicemente trend e argomenti caldi di discussione; personaggi in vista ed esperti del settore, quasi sempre tirati in ballo dai media tradizionali e nel tentativo di far sentire voci autorevoli sulla questione; persino aziende che operano nel settore o in settori affini e, ancora, semplici cittadini protagonisti diretti o indiretti di quanto sta accadendo. Una moltiplicazione di voci che non può non essere ricollegata, tra l’altro, alla disponibilità di mezzi «informali» e di «auto-comunicazione di massa» (Castells, 2017) quali sono ambienti e piattaforme digitali, facilmente accessibili a tutti, con praticamente nessuna barriera all’ingresso e in grado di rendere possibile la tanto discussa disintermediazione.

Perché l’epidemia non è semplice overload informativo

Quello che l’infodemia ha di diverso rispetto al semplice infomation overload è, insomma, che a essere in sovrabbondanza – a essere, cioè, molte di più di quante possano essere fisiologicamente vagliate dall’attenzione del singolo utente – non sono solo notizie, informazioni e fonti ma, anche e soprattutto, le voci parimenti attendibili e con (quasi) uguale credibilità a cui poter dare ascolto. Ancora dall’emergenza coronavirus in Italia viene un buon esempio a proposito: per giorni – come sottolinea, tra gli altri, Andrea Fontana su “Formiche” – si sono rincorsi sulle più importanti testate nazionali dichiarazioni e virgolettati di esperti virologi, epidemiologi, direttori di istituti di ricerca all’avanguardia completamente discordi nei contenuti e rispetto al livello d’allerta necessario da parte del Paese e dei singoli cittadini. Va da sé che si trattava di dichiarazioni e virgolettati tutti assolutamente validi, credibili e verificati singolarmente ma che, nel complesso, rischiavano di rendere  piuttosto confusionaria e frammentaria l’informazione sul tema.

coronavirus virgolettati sui giornali italiani altra versione

Due esempi di come, anche affidandosi a virgolettati di medici ed esperti del settore, durante l’emergenza coronavirus i giornali italiani abbiano contribuito a veicolare notizie contrastanti. Fonte: Formiche

coronavirus virgolettati sui giornali italiani

Il giornalismo con alcuni suoi bias – quello della personalizzazione e dell’iperspecializzazione, in particolare – ha avuto il grosso della responsabilità in questo senso.

Né ha a che vedere solo con bufale e fake news: anche troppe voci ufficiali creano infodemia

Per restare alle ragioni che rendono l’infodemia in parte diversa da altre forme tipiche di disinformazione, andrebbe sottolineato anche che essa non è sempre sinonimo di post-verità o di fake news . Nell’eccessivo numero di informazioni che circolano nei momenti di crisi infatti possono esserci – ed è, anzi, altamente probabile che ci siano – un gran numero di bufale, notizie volutamente manipolate o semplicemente non verificate, ma non sono né indispensabili perché si possa parlare di epidemia di informazioni, né le uniche responsabili della stessa. Le notizie vere, le notizie ufficiali, quelle fornite da testate tradizionali e generalmente affidabili se in quantità esorbitante e in produzione continua bastano già da sole a creare infodemia.

Perché e come nasce un’infodemia

Perché succede? La copertura che i media offrono a fatti di cronaca che riguardano contemporaneamente molte persone, piuttosto cruenti o con impatto non indifferente sulla vita associata di un paese, secondo “regole perfette” di notiziabilita , è la prima indiziata quando di parla infodemia. Davanti alle emergenze, in effetti, chi fa informazione cade spesso nella trappola della copertura in tempo reale, nemica dello slow journalism e dei tempi fisiologici per la verifica delle fonti e trasforma ogni fatto-notizia in una breaking news in costante aggiornamento o, ancora, ha la tentazione di ricondurre ogni accadimento al tema di giornata (in un meccanismo che è detto più tecnicamente “ tematizzazione “) e quella di insistere su aspetti particolarmente sensazionalistici, che poco hanno da offrire al discorso pubblico e molto solleticano invece lo human interest. Senza contare “tattiche” più pragmatiche che costringono chi fa informazione, soprattutto online, a inseguire i propri concorrenti per evitare buchi o a moltiplicare esponenzialmente il numero di pubblicazioni nel tentativo di moltiplicare anche il numero di visite e persino a usare in maniera controversa le tecniche seo sfruttando parole chiave e ricerche del momento per migliorare la propria posizione sui motori di ricerca. L’infodemia però è anche la risultante di una macchina, quella della crisis communication e della comunicazione durante le emergenze, che rischia spesso di incepparsi e di farlo in diversi punti (Manfredi, 2015). Soprattutto durante eventi naturali catastrofici come il terremoto che colpì il Centro Italia nel 2016 o, prima ancora, l’alluvione in Sardegna, è capitato spesso che le stesse fonti ufficiali contribuissero a creare una confusione d’informazioni, dando indicazioni contrastanti o smentendo notizie pure appena fornite.

Per certi versi, insomma, l’infodemia è figlia dell’età della complessità che viviamo. Grandi temi come il climate change rappresentano del resto “cambiamenti apocalittici” (Fontana, 2020) e vere e proprie sfide interpretative, davanti a cui non è detto che anche gli esperti del settore o chi studia da anni la materia abbia ancora frame interpretativi giusti. Il “rumore” provocato da una pandemia di notizie, così, prova a mascherare a volte l’incapacità di arrivare in fondo alla natura dei fatti. Spesso poi fanno rima con infodemia scienza in Rete e bufale scientifiche. Non sembra causale, insomma, che il termine “infodemic” sia stato coniato durante un’epidemia di SARS e sia stato tirato in causa nuovamente, un decennio dopo, dall’OMS in una situazione simile: quando il livello di tecnicismo si alza, quando le notizie riguardano innovazioni o grandi questioni scientifiche che, per essere interpretate correttamente richiederebbero esperienza ed expertise elevate nel campo, è la stessa volontà di semplificare che fa spazio a interpretazioni contrastanti e non sempre corrette.

L’infodemia minaccia davvero democrazia e vita associata?

Le conseguenze di quanto detto fin qua sono numerose e non prive di importanza. Non si tratta solo di sottolineare (come ha fatto, per esempio, chi ha chiesto di spostare il referendum sul taglio dei parlamentari del 29 marzo 2020 per garantire una campagna elettorale equilibrata, che non fosse offuscata dall’emergenza coronavirus in Italia) che un’informazione di qualità è il presupposto democratico per un giusto discorso pubblico e per una vera partecipazione alla vita del Paese. Essere bombardati da notizie contrastanti genera paura e allarmismo che, a valle, possono creare un senso di sfiducia nelle istituzioni, già da anni a livelli fiduciari minimi come i media. Il circolo, a questo punto, è vizioso ed è lecito chiedersi quanto paesi con una situazione di instabilità interna siano in grado di attrarre investimenti stranieri per esempio o che effetti possano verificarsi sulle economie in questione. Se anche si volesse restare su un piano semplicemente mediatico, poi, non si può non considerare che – come scrivono da Slow News commentando la copertura giornalistica dell’epidemia di coronavirus in Italia – «sul lungo periodo l’emergenza stanca»: bombardare lettori e utenti nelle primissime ore di informazioni su quanto sta avvenendo può, cioè, abbassarne la soglia d’attenzione degli stessi e portarli a desiderare altre notizie, su altri argomenti, già nelle ore immediatamente successive, quando magari sono intervenuti nel frattempo sviluppi e aggiornamenti cruciali.

L’EMERGENZA STANCASul lungo periodo l’emergenza stanca. Perché non si parla d’altro.Se la bolla è piccola, fiacca…

Posted by Slow News on Monday, February 24, 2020

Buone pratiche e soluzioni (possibili) contro l’infodemia

Complessa com’è nelle origini e per le potenziali conseguenze, l’infodemia richiede insomma l’impegno di tutti. E i possibile rimedi contro l’epidemia di informazioni del resto vanno dai più pragmatici a quelli che tutti possono applicare indipendentemente da come e in che misura partecipano al discorso pubblico, a quelli ancora che hanno a che vedere da più vicino con etica e deontologia professionale. Alcune delle iniziative contro le fake news di social network e piattaforme digitali possono aiutare in questo senso, dal momento che bollini che certificano che la notizia sia stata scritta da un giornalista o etichette che la segnalano già visivamente come fake hanno l’effetto di ridurre la mole di (potenziali) informazioni a cui prestare attenzione. Davanti alle continue richieste di un maggiore impegno – arrivate persino dall’OMS davanti all’emergenza coronavirus 2020 – i big del digitale hanno optato, e potrebbero farlo ancora di più in futuro, per operazioni “coatte” di rimozione dei contenuti più controversi, potenzialmente rischiosi soprattutto per fasce deboli come i bambini sul web o che diffondano idee complottiste e negazioniste e per operazioni più neutre di definizione di linee guida e policy più restrittive per quanto riguarda pubblicità e monetizzazione per esempio.

Come già si accennava gli organi competenti – come l’AGCOM, il Garante della Privacy o l’Ordine dei Giornalisti in Italia – hanno spesso fatto appello ai professionisti dell’informazione perché, anche e soprattutto nelle copertura delle emergenze, rispettino gli impegni deontologici della professione, continuino a distinguere cosa è di interesse pubblico e cosa non lo è e a tutelare i diritti tanto delle persone direttamente coinvolte quanto dei cittadini in generale, riscoprendo il loro come un ruolo “da anticorpo” di fronte alla copertura faziosa e allarmistica dei fatti di cronaca. Ai singoli cittadini e ai singoli utenti in Rete spetta invece, continua ancora Fontana, un notevole «esercizio di comprensione e di pace sociale». Per portarlo a fine e per evitare di essere veicolo, oltre che oggetto contagiato, di questa epidemia informativa bastano poche semplici pratiche quotidiane. Sono quelle riassunte per esempio nel manifesto contro il contagio informativo di CoreCom Lombardia, ma che chi frequenta consapevolmente gli ambienti digitali dovrebbe conoscere già e praticare ogni giorno per evitare bufale, hate speech , trolling e via di questo passo: fare un fact checking elementare delle notizie in cui ci si imbatte – controllando per esempio chi è l’autore, qual è la data di pubblicazione, com’è fatto l’ url , ecc. – e ricordarsi che anche condividere è responsabilità. La qualità dell’infosfera è determinata del resto dalle buone pratiche che segue chi la abita.

infodemia buone pratiche contro

Anche dal progetto Parole O_Stili viene qualche buona pratica contro l’infodemia, come condividere appunto un contenuto solo dopo averlo letto e compreso a fondo.

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