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Onlife

Definizione di Onlife

Onlife Utilizzato come avverbio, Onlife fa riferimento a tutte quelle esperienze concrete e fattuali vissute ogni giorno mentre si rimane attaccati a dispositivi e ambienti digitali e interattivi. È una condizione esistenziale, insomma, caratterizzata da una distinzione non netta tra reale e virtuale.

Onlife: significato e origini dell’espressione

Il neologismo deriva dalla contrazione delle espressioni «online» – comunemente utilizzata per descrivere, tecnicamente, uno stato di connessione a Internet e, per estensione, il complesso delle attività compiute in Rete – e «offline» – che indica, invece, lo stato opposto di disconnessione dalla Rete e dalle attività che avvengono al suo interno –. Inserito nella primavera del 2019 tra le voci della Treccani, insomma, è stato dato al termine «onlife» significato di «dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, vista come frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva».

Premesse e conseguenze di un’esistenza onlife

Va da sé che tante sono sia le premesse, tecnologiche e non, che hanno fatto sì che «onlife» diventasse il termine migliore per descrivere l’esistenza delle persone, sia le conseguenze dirette di una condizione di questo tipo.

Tra le prime c’è senza dubbio una diffusione pervasiva delle tecnologie ICT: il divario digitale, se lo si considera almeno nella semplice dimensione di possibilità d’accesso, appare oggi per lo più colmato, anche in virtù di una sempre maggiore accessibilità economica di device come PC e tablet e delle infrastrutture di base per la connessione a Internet. Più che l’aver a disposizione i mezzi, però, sono comportamenti e abitudini che questi abilitano a rendere le esistenze degne di essere vissute onlife appunto: studi e ricerche che hanno provato a indagare cosa fanno gli utenti in Rete o cosa succede in un minuto di Internet, infatti, mostrano chiaramente che piattaforme e ambienti digitali sono ormai luoghi in cui vengono esternate sfere diverse, da quella relazionale a quella professionale, tutte comprimarie nella vita del singolo. In questa prospettiva non sorprende che soprattutto le generazioni di adottivi e nativi digitali abbiano imparato a gestire e integrare, senza soluzione di continuità, vita ed esperienze reali e vita ed esperienze virtuali.

Se cade del resto la distinzione tra online e offline – che è, appunto, la premessa anche linguistica di una condizione come quella onlife – è a monte la stessa distinzione tra virtuale e reale a perdere di senso. In altre parole? In una vita vissuta onlife, virtuale è reale e ciò non può che avere una serie, naturale, di conseguenze a cascata sul modo in cui si costruisce la propria personalità, ci si relaziona all’altro o alle macchine, si gestisce la cosa pubblica o ancora, per esempio, si intende il concetto di responsabilità.

The Onlife Manifesto: una proposta per integrare virtuale e reale

Ciascuno di questi aspetti è stato indagato nel dettaglio da “The Onlife Manifesto”, un testo in cui Luciano Floridi e un gruppo di studiosi, per primi, provano a spiegare nel dettaglio il neologismo «onlife» e, come accade per qualsiasi manifesto, a tracciare regole e principi fondamentali di una vita vissuta onlife. Le riflessioni teoriche fornite sono numerose, ma ben si condensano nel termine «dualità»: essere umani in un’era di iperconnessione richiede di lasciar perdere le dicotomie e ragionare, invece, per binomi.

Come pubblico e privato, per esempio. Una delle condizioni chiave per capire come si vive un’esistenza onlife ha a che vedere, infatti, con come l’individuo impara a gestire – anche in questo caso senza soluzione di continuità – sfera privata e sfera pubblica: gli ambienti digitali, la memoria elefantiaca di cui godono (basti pensare, in questo senso, alla necessità avvertita di uno strumento di tutela come il diritto all’oblio e, all’estremo opposto, a forme di controllo come quelle legate alle pratiche di social recuiting, solo per fare due esempi) costringono, infatti, a ripensare come pubblici anche aspetti della vita tradizionalmente intesi come privati o, al minimo, rendono labile qualsiasi confine tra queste due sfere. Il sé onlife è in altre parole un sé relazionale, che sa di doversi rapportare in ogni momento con altri che non è detto facciano parte del proprio solo gruppo primario e che per questo mette in atto precise strategie di costruzione di un’identità che più volte è stata definita «semi-pubblica». Per dovere di chiarezza, la manifestazione forse più evidente di questa identità semi-pubblica è rappresentata, per esempio, dai profili social in cui tutto, dalla scelta di un’immagine di profilo alle impostazioni della privacy, contribuisce a veicolare un’immagine desiderata di sé e coerente alle proprie ambizioni.

Anche il binomio complessità e controllo appare fondamentale, comunque, se si considerano diversi aspetti della condizione onlife. Si pensi per esempio al rapporto uomo-macchina, reso più complesso proprio dallo sviluppo di tecnologie come l’AI o il machine learning e che è uno dei temi che, a oggi, pone più questioni etiche. Decisamente più frequente per tutti è sperimentare la complessità nella forma del cosiddetto information overload: la grande mole di informazioni a disposizione degli individui in Rete risulta spesso difficile da gestire, richiede sforzi cognitivi non indifferenti e forme di controllo che, di fatto, si traducono in una riduzione delle possibilità: lo è già, per esempio, il fatto di eleggere, tra le innumerevoli disponibili, poche o pochissime fonti di fiducia che rischiano di ridurre nelle dimensioni e rendere ancora più omofila la propria bolla digitale.

Anche il vasto tema della responsabilità è una delle declinazioni più interessanti di complessità e controllo nella dimensione onlife. Agli ambienti digitali è stata tradizionalmente riconosciuta, infatti, una sorta di leggerezza che rende difficile, con ogni probabilità anche perché in assenza di strumenti nativi, normare comportamenti e condotte al suo interno. Ci sono grandi interrogativi a cui la giurisprudenza ha provato nel tempo a dare risposta e sono interrogativi come “di chi è la responsabilità tra chi pubblica contenuti illeciti e il gestore della piattaforma che li ospita?“, per esempio. Quando il confine tra la vita reale e la vita virtuale si fa più sfumato per tutti, però, assumono priorità domande come “offendere qualcuno online è diffamazione?” o “posso essere punito per un linguaggio dell’odio e offensivo?“. Va da sé che quella legale non è la sola risposta che conta e che vivere un’esistenza onlife richiama l’importanza di un altro tema come quello della cittadinanza digitale. Com’è stato sottolineato a più riprese, e come fa tra l’altro anche il gruppo di Floridi, è ormai tempo che l’attenzione si sposti dal digital divide al cosiddetto knowledge divide: ogni società dovrebbe chiedersi, cioè, a che punto è nello sviluppo di una certa cultura digitale o media literacy e quali strumenti – cognitivi, analitici, di difesa, ecc. – è in grado di fornire ai propri membri per metterli nella condizione di vivere al meglio e approfittare delle opportunità offerte dalla propria vita onlife.

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