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Brand activism

Significato di Brand activism

brand activism definizione Il Brand activism è l’impegno e il coinvolgimento verso una o più cause di rilevanza sociale, ambientale, politica, economica dimostrato da una marca attraverso campagne di comunicazione, iniziative, progetti ad hoc.

Il brand activism è la chiara volontà da parte dell’azienda di assumersi responsabilità in ambito sociale e di partecipare al raggiungimento del bene comune: ad affermarlo sono Kotler e Sarkar in uno dei primi testi sulla materia (“Brand Activism. From purpose to action”, 2018).

Le premesse all’attivismo di brand

Al di là della definizione di attivismo di brand che si voglia accettare, entra in gioco in questa prospettiva una nuova visione dell’azienda e di quello che è il processo di decisione degli acquisti.

L’azienda non è più un sistema chiuso; entra in conversazione – in accordo, tra l’altro, coi diktat del Cluetrain Manifesto – con una serie di soggetti diversi tra cui istituzioni, decisori politici, attivisti, altre aziende, tanto che in questa rete di relazioni complesse e basate su equilibri precari necessita di imparare a esercitare una sorta di vera e propria diplomazia di brand (non a caso c’è chi propone in alternativa a brand activism l’espressione “corporate diplomacy”) e, ancora, è consapevole di avere un ruolo attivo e partecipativo che va ben oltre il rendere disponibile prodotti o servizi o il generare profitto. Praticare brand activism significa, cioè, passare da una prospettiva marketing-driven a una society-driven.

Brand activism, campaign marketing, issue management, corporate diplomacy: che differenze?

Obiettivi e premesse dell’attivismo di brand sembrano, insomma, piuttosto simili a quelle della corporate social responsibility e, in effetti, sono ancora Kotler e Sarkar a guardare al brand activism come una sorta di «naturale evoluzione» della CSR. Nella pratica, del resto, sarebbe impossibile distinguere alcuni esempi di brand activism da quelle occasioni in cui brand e aziende concretizzano il proprio impegno sociale in campagne di comunicazione a favore della prevenzione del tumore al seno, per esempio, o contro l’utilizzo di plastica, ossia sfruttando mezzi e forme tipici del campaign marketing. C’è chi fa notare anche come l’attivismo di brand abbia a che vedere con il cosiddetto issue management (Fontana, Cino 2019), ossia con la capacità che ha un azienda o un brand di intercettare temi e questioni calde di un determinato periodo, all’interno di una determinata comunità, meglio se quella corrispondente ai propri target attuali o desiderati. In questo senso usare l’espressione corporate diplomacy per riferirsi alla priorità che ha assunto per le aziende il prendere posizione può risultare più comprensivo: come la diplomazia più tradizionale, la diplomazia aziendale, prima e per trasformarsi in attivismo di brand, ha bisogno infatti di comprendere quali sono le cause a cui più tengono o che più dividono le comunità di riferimento, di costruire un’agenda di priorità tra queste e, perché no, di giocare con la loro rilevanza percepita (è l’obiettivo del cosiddetto perception management ). Se è vero infatti che aziende e brand non possono più permettersi di non schierarsi, è vero anche che è necessario che la propria scelta di campo sia il più oculata possibile. In testi come “Corporate Diplomacy. Perché le imprese non possono più restare politicamente neutrali” viene fornito un decalogo per l’attivismo di brand che tiene conto dell’importanza della brand identity e di quella che assume il rispettare storia e valori aziendali e, ancora, del peso sempre maggiore che ha l’internazionalizzazione o di come sia irrinunciabile la componente di programmazione strategica.

Tipologie ed esempi di brand activism

Più tradizionalmente sono state individuate tipologie di brand activism diverse dalle altre per direzione o area di interesse.

La prima grande distinzione sarebbe da fare, in questo senso, tra attivismo di brand regressivo o progressivo. Il primo sarebbe tipico di soggetti che operano in settori o commercializzano prodotti – si pensi a sigarette e derivati del tabacco o a bevande gassate e contenenti molto zucchero e, ancora, al gioco d’azzardo e all’industria pesante, solo per fare qualche esempio – considerati controversi: forme di brand activism regressivo li porterebbero a vantare benefici non confermati delle proprie attività produttive o dei propri prodotti o servizi oppure, più frequentemente, a minimizzarne l’impatto negativo. Ciò era più comune un tempo rispetto ad adesso: basti pensare alle pubblicità del passato che non si preoccupavano – e sembravano, anzi, quasi compiaciute – di veicolare messaggi maschilisti e machi.

Oggi è più probabile invece che chi opera in settori controversi, nel tentativo di migliorare la propria brand reputation , investa in più strutturati piani di responsabilità sociale o che ripieghi, al limite, su operazioni di greenwashing . Le aziende che prendono posizione lo fanno in genere in senso progressivo, a favore di quelli che sono reputati come passi avanti per la vita associata o proponendosi come evangelist di nuove idee, nuovi interessi.

brand activism progressivo o regressivo

Fonte: Italian Marketing Foundation

Una seconda distinzione ha a che vedere, come si accennava, con gli ambiti in cui è esercitato il brand activism. Il grande campo delle questioni sociali è quello più spesso praticato da brand e aziende dei settori più diversi, con numerosi soggetti business che di recente hanno reso pubblica la propria posizione in tema di riconoscimento dei diritti della comunità LGTBQ+, aborto o immigrazione per esempio.

Anche quello economico-legale è un campo in cui brand e aziende possono fare e rendere pubbliche scelte ben precise e orientate: non in poche sembrano averlo fatto di recente a favore dell’eliminazione del gender pay gap o per il riconoscimento del congedo parentale anche ai neopapà. Nike che chiama come testimonial per celebrare i trent’anni del suo celebre pay off Just Do It il quarterback Colin Kaepernick, veicolando un messaggio chiaro contro le politiche migratorie del governo Trump, è forse la più chiara dimostrazione che le aziende possono prendere posizione anche nelle questioni politiche. I temi legati all’ambiente, poi, hanno visto attivi e propositivi sempre più brand davanti alla minaccia rappresentata da emergenza climatica e ban cinese della plastica.

Non è escluso, però, che l’attivismo di brand possa riguardare anche questioni aziendali, di organizzazione del lavoro o di politiche interne all’ambiente lavorativo.

Gli effetti dell’attivismo di brand

A questo punto chiedersi se il brand activism funziona è inevitabile. Oltre all’idea dell’azienda come sistema aperto, l’assunto di base dell’attivismo di brand è rappresentato da consumi sempre meno solo funzionali e sempre più soprattutto identitari, rappresentativi cioè della propria appartenenza a una certa cultura e a un certo sistema di credenze. Quello che si dice più frequentemente su consumatori giovanissimi, millennials o della Gen Z, è infatti che nel processo decisionale che porta all’acquisto non incidono solo fattori come la qualità del prodotto o servizio oppure il suo costo, quanto anche una certa affinità coi valori di brand o la possibilità di riconoscersi in questi. Sembra poi che le nuove generazioni di consumatori acquistino più volentieri da un brand che prende posizione. È davvero così? Le evidenze sono contrastanti. Per molti italiani l’attenzione delle aziende all’ambiente e al clima sarebbe «solo business», per esempio. Comscore ha evidenziato, invece, che solo per il 15% degli americani le aziende dovrebbero prendere posizione nettamente su questioni di rilevanza politico-sociale e che questa percentuale è meno anagraficamente determinata di quanto si possa immaginare.

brand action funzionano

La percentuale di consumatori americani che crede fermamente nell’importanza dell’attivismo di brand è meno alta di quanto si possa immaginare.

Se è vero, insomma, che nel lungo termine anche le questioni apparentemente più lontane dall’attività dell’azienda, come quelle ambientali o politiche appunto, si trasformano in questioni finanziare rilevanti per essa, è vero anche che non sono solo i più giovani a decidere di sostenere o boicottare un’azienda per quanto e come si dimostra sensibile alle cause in cui essi stessi si ritrovano più coinvolti, né un veto assoluto è posto per aziende e prodotti che non hanno all’attivo forme di attivismo.

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