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Geoblocking e discriminazioni geografiche: l'UE pronta a vietarne gli abusi

Geoblocking e discriminazioni geografiche: l'UE pronta a vietarne gli abusi

Il Consiglio Europeo approva una posizione comune sulla bozza di Regolamento per vietare geoblocking e discriminazioni geografiche.

L’Unione Europea, per quel che attiene alla dimensione economica (ex “primo pilastro” di Maastricht), ha tra i suoi obiettivi fondanti quello di realizzare un mercato unico tra gli Stati membri, ovverosia uno spazio senza frontiere e nel quale siano assicurate la libera circolazione delle merci (artt. 28 e ss. TFUE), delle persone, dei servizi e dei capitali (artt. 45 e ss. TFUE). Oggi, ad un settantennio dai Trattati di Roma che il 25 marzo 1957 tennero a battesimo la Comunità Economica Europea (CEE), sebbene per il conseguimento di questo obiettivo molti passi siano stati mossi, probabilmente altrettanto resta ancora da fare, com’è dimostrato dalla imponente (e talvolta ipertrofica) attività legislativa delle Istituzioni dell’Unione, anche sulla base delle sollecitazioni raccolte presso l’opinione pubblica. In tal senso, una novità di sicuro rilievo è quella che attiene all’approvazione, in seno al Consiglio Europeo, di una bozza di regolamento per disciplinare il fenomeno del cd. geoblocking, ovverosia l’imposizione agli acquirenti di beni o servizi commercializzati in via transnazionale di condizioni differenziate in ragione del diverso Stato in cui la transazione viene eseguita.

I numeri del problema e il contesto normativo di riferimento

Dai dati forniti dal Consiglio Europeoinfatti, si trae che solamente il 15% dei cittadini europei che effettuano acquisti online visita web store di Stati diversi da quello di appartenenza. Ciò deriva in massima parte proprio dalla pratica del geoblocking, ovverosia dall’imposizione da parte del venditore di limitazioni geografiche, realizzate essenzialmente attraverso due modalità:

  • mediante un  reindirizzamento automatico dell’utente che naviga su un sito straniero alla versione nazionale del portale visitato;
  • attraverso l’impossibilità di ottenere la spedizione del bene o la prestazione del servizio acquistato.

Tale situazione – come è stato osservato dal documento predisposto dal Consiglio –, sebbene talvolta possa essere giustificata da fattori oggettivi, come ad esempio limiti organizzativipratici, di regola è riconducibile a ragioni puramente speculative, in quanto vengono impedite od ostacolate transazioni commerciali transfrontaliere che il prestatore ben potrebbe realizzare.

Ciò rappresenta in effetti una violazione o una inattuazione della previsione contenuta nell’articolo 20 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio che, nel dettagliare sotto il profilo geografico il principio di non discriminazione, impegna gli Stati membri a provvedere affinché i prestatori di servizi stabiliti nell’Unione non trattino in modo diverso i destinatari dei servizi sulla base della loro nazionalità o del loro luogo di residenza.

Tale previsione, tuttavia, contempla al secondo comma una deroga per il caso in cui la differenziazione del trattamento sia giustificata in base a (non meglio specificati) criteri oggettivi. E allora, proprio in virtù della genericità del parametro cui viene ancorata l’eccezione, si è finito per svuotare di pregnanza il principio di non discriminazione geografica.

A ciò, peraltro, si aggiunga che il geoblocking e gli altri accorgimenti discriminatori possono anche verificarsi poiché gli operatori sono residenti in paesi terzi e si tratta quindi di soggetti che comunque non rientrano nell’ambito di applicazione della richiamata direttiva (art. 2).

I rimedi per contrastare geoblocking e discriminazioni geografiche

L’intervento correttivo messo in cantiere del legislatore UE, allora, esplicitamente dichiara di voler definire i casi di insussistenza della giustificazione di cui all’art. 20 della direttiva 123/2006 (art. 1) e si pone come obiettivo quello di contrastare il geobloking e le altre forme di discriminazione territoriale diretti o indiretti, disciplinando (e vietando) le disparità di trattamento ingiustificate anche quando fondate su altri criteri di differenziazione che però producano lo stesso risultato distorsivo del libero mercato, come l’applicazione di parametri basati direttamente sulla nazionalità, il luogo di residenza o il luogo di stabilimento dei clienti.

Va considerato, poi, che gli abusi in parola sono possibili essenzialmente poiché il prestatore, in virtù della sua forza economica, può imporre unilateralmente determinate condizioni contrattuali all’acquirente.

La regolamentazione del fenomeno, allora, nel caso di negozi conclusi attraverso condizioni generali di contratto (CGC), interesserà gli utenti finali non solo ove si tratti di consumatori ma anche nel caso di imprese. Ciò in quanto anche gli operatori professionali, in particolare ove si tratti di microimpresepiccole e medie imprese, scontano un gap in termini di potere contrattuale simile a quello dei consumatori e, quindi, possono esser vittime degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla discriminazione geografica.

Per contro, il regolamento non si applicherà – secondo quanto indicato nella bozza – a quelle transazioni a rilevanza esclusivamente nazionale, giacché esse ovviamente non incidono (direttamente) sul mercato comune e quindi sono soggette (solo) alle diverse discipline nazionali e comunitarie di settore.

Passando quindi al profilo rimediale, all’art. 3 si prevedrebbe anzitutto un divieto per gli operatori di bloccare o limitare l’accesso dei clienti alle diverse interfacce online per motivi legati alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento (co. I). Negli stessi casi, parimenti dovrebbe essere impedito un reindirizzamento ad una versione del sito web diversa (per lingua, struttura o altre caratteristiche) rispetto a quella cui il soggetto interessato intendeva accedere, a meno che il cliente non abbia previamente fornito il suo assenso (co. II).

Il divieto di discriminazione si estenderebbe, poi, ai servizi telematici (cloud computing, archiviazione dei dati, hosting di siti web, installazione di firewall…), salvo che essi consistano esclusivamente nel fornire accesso e permettere l’uso di opere tutelate dal diritto d’autore, come eBook o musica online (art. 4).

Ancora, verrebbero bandite  discriminazioni geografiche geoblocking imperniate sulle condizioni contrattuali derivanti dalla scelta di taluni strumenti e canali di pagamento (art. 5). È fatta salva, comunque, la possibilità di addebitare le spese per l’utilizzo di carte elettroniche se nello Stato membro a cui è soggetta l’attività dell’operatore ciò non sia proibito. In ogni caso, tuttavia, le spese addebitate non possono superare i costi diretti sostenuti dall’operatore per l’utilizzo dello strumento di pagamento.

I divieti in questione, comunque, non dovrebbero impedire – secondo lo schema di regolamento – che gli operatori offrano condizioni differenziate tra Stati membri o all’interno di uno Stato membro se proposte ai clienti di un determinato territorio o a gruppi specifici di clienti, né gli operatori saranno obbligati a effettuare una consegna a clienti al di fuori dello Stato membro in cui essi propongono il servizio di spedizione.

Ebbene, con riguardo a quest’ultima previsione, non può tacersi una perplessità: proprio come avvenuto per l’art. 20 della direttiva 123/2006, infatti, l’efficacia delle contromisure adottate potrebbe essere ridimensionata da una decodifica del concetto di “determinato territorio” o “gruppi specifici” che ben potrebbe prestarsi ad interpretazioni forzate o capziose ad opera dei prestatori e quindi con pregiudizio dei clienti. Importante sarà allora l’attività di vigilanza cui il regolamento chiama (art. 7) appositi organi che i Paesi membri dovranno individuare.

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