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Utilizzo indebito dei meta-tag tra marchi concorrenti

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Dall'inizio del nuovo millennio la giurisprudenza si è espressa più volte sull'uso indebito dei meta-tag: le sentenze che hanno fatto storia.

Internet è ormai il principale strumento di comunicazione di massa: le opportunità offerte dalla rete consentono infatti di raggiungere livelli di visibilità precedentemente impensabili. I siti web sono quindi diventati fondamentali strumenti di marketing aziendale, comportando lo sviluppo di nuove tipologie d’impresa e di innovative modalità commerciali che oggi assumono primaria rilevanza economica e sociale.
Tuttavia, ciò ha comportato il proliferare nel mondo virtuale di innovative forme di contraffazione di titoli di proprietà industriale e di concorrenza sleale.

Tra le principali pratiche scorrette sviluppatesi, una delle più diffuse consiste nell’uso illecito di marchi altrui come meta-tag, le parole chiave utilizzate dai motori di ricerca per individuare ed indicizzare i vari siti presenti sulla rete, allo scopo di far comparire tra i risultati della ricerca il proprio sito web.

A partire dai primi anni del nuovo millennio, la giurisprudenza si è espressa più volte sulla questione.
Una delle prime pronunce italiane in materia è stata quella del Tribunale di Roma che, con ordinanza del Gennaio 2001, ha stabilito che compie atti di concorrenza sleale l’impresa operante nel medesimo settore (ndr. RCA auto) che, sfruttando la notorietà del marchio altrui, utilizzi come keyword il segno distintivo della concorrente per far comparire il proprio sito web tra i risultati dei motori di ricerca. Veniva invece escluso che tale condotta costituisse anche contraffazione del marchio, in quanto, essendo il meta-tag invisibile all’internauta, il segno non sarebbe stato utilizzato in funzione distintiva.

Con particolare riferimento ai servizi di keywords advertising (la pubblicazione tra i risultati dei motori di ricerca di annunci a pagamento correlati alle parole ricercate), con decisione del Febbraio 2009 il Tribunale di Milano ha invece stabilito che l’uso di marchi altrui come parole chiave delle inserzioni a pagamento costituisce un’ipotesi oltre che di concorrenza sleale, anche di violazione di marchio.
Il caso ha visto coinvolte come attrici due società concorrenti nel settore del noleggio di auto, che hanno agito congiuntamente contro la condotta di alcune agenzie pubblicitarie alle quali si era affidata una delle due per sviluppare una campagna di web marketing. Le agenzie, nell’interesse ma all’insaputa della propria cliente, avevano utilizzato come keyword il marchio della concorrente per l’attivazione di links sponsorizzati. Il marchio della concorrente compariva anche nell’annuncio che appariva a seguito della ricerca, ma cliccandoci si veniva reindirizzati al sito della cliente.
Le convenute sono state condannate per contraffazione del marchio altrui e per concorrenza sleale confusoria a risarcire i danni causati alla titolare del marchio. In tale ipotesi, infatti, l’uso del segno distintivo altrui all’interno dell’annuncio pubblicitario sarebbe avvenuto anche in funzione distintiva, in quanto idoneo a generare confusione nei consumatori.
La società attrice non è invece stata condannata in ragione della sua buona fede, dimostrata per i giudici dalla comune, unitaria instaurazione del giudizio.

La più famosa sentenza in tema di meta-tag e marchi è la decisione della Corte di Giustizia U.E. del 2011 (c.d. sentenza Interflora), con cui i giudici comunitari hanno condannato una famosa impresa di gdo inglese che aveva utilizzato come meta-tag il noto marchio di un’azienda di vendita e consegna di fiori a domicilio, per pubblicizzare il proprio analogo servizio.
La sentenza ha stabilito che il titolare di un marchio che gode di notorietà ha il diritto di vietare l’uso del proprio marchio da parte di un terzo nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, qualora detto concorrente tragga indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio oppure nel caso in cui tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo o a detta notorietà.
I giudici si sono quindi premurati di specificare che il titolare di un marchio famoso non può vietare annunci pubblicitari fatti comparire dai propri concorrenti a partire da parole chiave che corrispondono al proprio marchio e propongono, senza arrecare pregiudizio alla funzione distintiva del marchio, un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del noto segno.

Sulla base dei criteri stabiliti dalla predetta decisione comunitaria, il Tribunale di Palermo nel Giugno 2013 ha negato la responsabilità del fornitore del servizio pubblicitario, in quanto questi si limita a fornire un servizio di hosting, senza avere alcun obbligo di controllo sul contenuto delle informazioni immesse dagli utenti. Inoltre, nel caso di specie, una volta venuto a conoscenza dell’illecito, pur in assenza di un ordine dell’autorità, l’Internet Service Provider si sarebbe prontamente attivato per bloccare l’associazione delle inserzioni con il marchio in contestazione.
Alla luce del panorama giurisprudenziale in tema di utilizzo illecito di marchi altrui quali parole chiave dei motori di ricerca, qualora il titolare dovesse accorgersi che il proprio marchio viene indebitamente usato per indicizzare siti altrui, oltre a valutare l’opportunità di adire l’autorità giudiziaria (il cui intervento è comunque indispensabile per richiedere il risarcimento del danno), sarebbe consigliabile anche stimare l’invio di una diffida al terzo concorrente, intimandogli di cessare il comportamento illecito, nonché l’inoltro di una segnalazione al motore di ricerca , che potrebbe ottemperare anche prima dell’eventuale ordine giudiziale.

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