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La comunicazione del non profit durante la pandemia: i principali cambiamenti e alcuni consigli per le organizzazioni

Immagine di un salvadanaio con delle monete e la scritta

In che modo le organizzazioni non profit devono comunicare la propria causa in un momento di emergenza sanitaria ed economica? Ecco alcuni consigli forniti dal professore Valerio Melandri.

L’emergenza sanitaria ha avuto ripercussioni sulla comunicazione aziendale e sul modo in cui le imprese si sono rapportate con i propri clienti. Molti brand hanno infatti avvertito il bisogno di adeguare le proprie strategie pubblicitarie al momento storico, cercando di rispondere, in maniera diversa, alle aspettative e ai bisogni dei consumatori in un contesto di emergenza sanitaria ed economica. Come hanno risposto, invece, le organizzazioni non profit durante la pandemia e quali sono stati i principali cambiamenti registrati nel terzo settore nell’ultimo anno?

Cos’è cambiato nella comunicazione del non profit durante la pandemia?

«Il mondo del non profit è in ritardo rispetto al mondo profit ma in qualche modo lo segue, quindi quello che è successo nel mondo profit in piccola parte» è avvenuto anche tra le organizzazioni del terzo settore, ha fatto notare Valerio Melandri, direttore del master universitario in Fundraising di Forlì e fondatore del Festival del Fundraising, durante la puntata di Inside Talk del 20 maggio 2021.

La comunicazione del non profit: principali sfide del COVID-19 e alcune strategie
La comunicazione del non profit: principali sfide del COVID-19 e alcune strategie

Anche la comunicazione del non profit di conseguenza è cambiata durante la pandemia per differenti ragioni. Innanzitutto, alcune organizzazioni hanno dovuto adeguare messaggi e strategie pubblicitarie utilizzati per invitare le persone a donare. Si pensi, per esempio, alla collaborazione tra The Jackal e ActionAid che nel 2020 ha dato vita a due spot in cui, con il solito tono ironico, veniva ripreso il tema della pandemia – e in particolare le sfide vissute dalle persone da quando è iniziata – per attirare l’attenzione dei potenziali donatori e invitarli a prendere parte alla causa di ActionAid. Come ha dichiarato Valerio Melandri, così come nel mondo profit anche tra i player del non profit è emerso nell’ultimo anno il tentativo di rivolgersi ai donatori con una maggiore empatia, considerati l’attuale momento storico e le paure provate dai singoli individui: vi è una maggiore «attenzione rivolta al donatore rispetto al passato», quando quest’ultimo «veniva trattato in un modo più automatico, più meccanico».

L’accelerazione digitale spinta dalla pandemia e la conseguente adozione, in molti casi forzata, di diversi strumenti digitali ha portato a un cambiamento anche nei mezzi utilizzati da molte organizzazioni per comunicare con i donatori.

La digitalizzazione nel settore non profit e le principali sfide per le organizzazioni

Nel 2020 il 33% degli utenti ha effettuato almeno una donazione online, contro il 34% che ha utilizzato il contante: si tratta di un dato importante, specie se si considera che in base ai dati risalenti a cinque anni fa la percentuale di donazioni online corrispondeva al 23%, con il 44% di donazioni in contanti. I dati risultanti dall’indagine condotta da Rete del Dono e PayPal in collaborazione con Bva Doxa sono un esempio di come progressivamente (specie nell’ultimo anno) sia aumentato il numero di utenti disposto a usare i mezzi digitali per donare.

Se da un lato la pandemia ha accelerato un percorso di digital transformation già in atto all’interno di molte organizzazioni, dall’altro molte non erano pronte a sfruttare al meglio queste tecnologie. Stando a uno studio condotto da Deloitte insieme a Fondazione Italia Sociale tra novembre e dicembre 2020 su un campione di 177 organizzazioni non profit, nel 48% di queste in Italia si registra ancora un livello basso di competenze digitali dei dipendenti e volontari e un livello medio nel 46%.

Grafico ripreso dalla ricerca condotta da Deloitte su 177 organizzazioni no profit in Italia. Comunicazione del no profit durante la pandemia.

Fonte: Deloitte

Come ha sottolineato Valerio Melandri «siamo in ritardo nella digital transformation» e quindi, dinanzi al cambiamento repentino dovuto alla pandemia, molte organizzazioni non erano ancora pronte, anche perché, come ha aggiunto l’esperto, le sfide per questo settore sono tante. Mentre molte aziende sono riuscite a dare continuità alle proprie attività, permettendo ai dipendenti di lavorare a distanza e potendo inoltre in molti casi mantenere aperti i propri punti vendita (si pensi in particolare ai negozi di alimentari, di elettrodomestici o di altri beni ritenuti di prima necessità), «il non profit invece ha dovuto reinventarsi completamente».

Pensando in particolare alla raccolta fondi da parte delle organizzazioni è facile comprendere la dimensione delle sfide imposte. Infatti, per circa un anno e mezzo gli eventi di raccolta fondi non si sono potuti realizzare; lo stesso vale per i colloqui effettuati davanti a supermercati, stazioni, aeroporti e piazze per proporre donazioni periodiche o a distanza. Se prima della pandemia il passaggio dall’offline all’online senza una motivazione ritenuta “valida” spesso comportava la perdita di donatori (meno propensi a effettuare donazioni online), l’arrivo del COVID-19 ha fatto sì che il digitale fosse praticamente l’unico canale a disposizione.

Come ha chiarito l’esperto a questo proposito, con gli strumenti digitali (invio di newsletter e avvio di raccolta fondi sui social per esempio) si riducono i costi relativi alla stampa e alle consegne tramite posta, ma chi è abituato «a donare in carta vuole donare in carta» e «non è vero che se li trasferisci online spendi di meno: spendi di meno, ma raccogli molto di meno», ha aggiunto.

Proprio per questa ragione, «non conviene mai passare al digitale senza un buon motivo». La pandemia si è presentata in tal senso come la “motivazione perfetta”: molte organizzazioni hanno approfittato di questa situazione per una migrazione dall’offline all’online, interrompendo l’invio di newsletter e di magazine cartacei (che consistevano spesso in invii numerosi e a costi elevati). Secondo Valerio Melandri, dunque, «questa è la grande occasione per passare dalle comunicazioni di persona, cartacee o offline a comunicazione digitali».

Comunicare la propria causa e la propria organizzazione in un momento di crisi

Gli effetti della pandemia hanno avuto dure ripercussioni sull’intero settore. Tre tipologie di organizzazioni hanno però avvertito maggiori difficoltà secondo l’esperto: quelle che avevano problemi nel comunicare la propria causa – «perché le cause erano ambigue, complesse e non erano ben spiegate» – riducendo la probabilità di donazione; quelle che non avevano un forte database di donatori; quelle che si occupavano soltanto di cause estere.

Chiaramente l’impegno da parte delle organizzazioni nel comunicare le proprie cause in maniera semplice e chiara, ma anche nel presentare al meglio il proprio brand, era fondamentale già prima della pandemia, ma l’emergenza sanitaria ha finito per mettere in seria difficoltà le organizzazioni non attrezzate al meglio dal punto di vista comunicativo: quando le cause non vengono spiegate bene e le persone non le comprendono semplicemente non donano.

Un altro aspetto fondamentale per garantire una strategia di raccolta fondi efficace, come ha fatto notare Valerio Melandri, è avere un buon database. Secondo l’esperto sono tante le ragioni che portano i donatori a uscire continuamente dal database delle organizzazioni: le persone muoiono, perdono interesse nei confronti della causa o possono essere condizionate da altri fattori come un cambio di casa o la perdita del lavoro. Per questo motivo è di vitale importanza “curare continuamente il proprio database di donatori, riempiendolo grazie ad attività di lead generation e di ricerca di persone propense a donare: un buon modo per non ritrovarsi impreparati in tempi difficili, come quelli che stiamo vivendo.

Infine, un elemento fondamentale per la comunicazione del non profit durante la pandemia riguarda la cura del donatore. Melandri ha riportato l’esempio delle organizzazioni che, in una fase iniziale dell’emergenza sanitaria, hanno deciso di contattare telefonicamente i propri donatori non per chiedere soldi, ma per sincerarsi delle loro condizioni di salute: è questo un modo per mostrare interesse nei confronti delle persone che di solito sostengono la causa dell’organizzazione, in un momento di grande incertezza e di paura per la propria salute e per quella dei propri cari. In molti casi, come ha aggiunto l’esperto, i donatori contattati erano sorpresi e colpiti dal gesto e alla fine chiedevano spontaneamente, senza alcuna sollecitazione da parte dell’organizzazione, come poter contribuire alla causa. È interessante inoltre notare che, secondo l’esperto, le organizzazioni non profit che hanno scelto questa strategia stanno vedendo ora i risultati in termini di raccolta fondi proprio perché i donatori si sono ricordati che in un momento di bisogno, in cui molte persone si sono sentite isolate o hanno comunque attraversato delle difficoltà di diverso tipo, «noi ci siamo ricordati di loro».

Se per raccogliere più fondi basta chiedere

I dati più recenti sul mondo del non profit indicano che c’è stato un aumento importante delle donazioni fatte a enti pubblici come gli ospedali. Un’indagine condotta da BVA Doxa su 1003 donatori individuali a marzo 2020 ha messo in evidenza un aumento del 30% del numero di italiani che ogni anno dona per la ricerca scientifica, sanitaria o equivalente (numero pari a 8,3 milioni nel 2019).

Valerio Melandri ha spiegato che il motivo per cui sono aumentate le donazioni (e i donatori) in questo settore durante la pandemia è che «c’era più richiesta»: in effetti, se da un lato l’esperto ha ammesso che la comunicazione, la creatività e la causa in sé sono aspetti fondamentali, dall’altro ha messo in evidenza il ruolo fondamentale della mera azione di richiesta di donazioni. «Alla fine dei conti quello che fa la differenza è quanto effettivamente è stato richiesto, cioè quante iniziative di chiamata all’azione sono state fatte».

Alcuni studi sostengono quest’idea. È possibile citare a tal proposito per esempio quello condotto da Federico Varese e da Meir Yaish sui fattori che hanno spinto persone non ebree a cercare di salvare persone ebree durante il regime nazista in Europa. È interessante notare che persino «in una situazione così drammatica» in cui la causa (in questo caso evitare la morte di qualcuno) è assolutamente condivisibile, il fattore che accomunava le persone che avevano scelto di aiutare degli ebrei era il fatto che era stato chiesto loro di farlo. Secondo i ricercatori, «una richiesta diretta aumentava sostanzialmente la probabilità di essere salvati».

Seguendo la stessa logica, come ha fatto notare l’esperto di fundraising, «nei paesi dove c’è molta richiesta di fondi, ci sono anche molte donazioni, mentre nei paesi in cui c’è poca richiesta di fondi ci sono pochissime donazioni, anche se l’economia di quel paese funziona». Questo sarebbe il «fattore determinante nella raccolta fondi», cioè «il fatto che ci sia qualcuno che in qualche modo mi suggerisce di fare una certa azione». Il fondatore del Festival del Fundraising ha sottolineato che le donazioni sono reattive «nella stragrande maggioranza dei casi e non proattive, salvo in una piccola percentuale». Per tale ragione egli ha voluto precisare che la «generosità nell’essere umano non è istintiva», cioè è qualcosa che viene insegnato, frutto dell’educazione e del contesto: «è una dote che viene creata» e, in questo senso, possiamo comprendere il ruolo delle organizzazioni non profit e della relativa comunicazione nell’educare la società.

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