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Quanto in salute è l'informazione (in Italia)? Uno studio comparativo

Media For Democracy Monitor 2021: dati sui news media

Un gruppo di ricercatori europei ha preso in considerazione fattori come la facilità di accesso a fonti diverse d'informazione, il prezzo delle stesse, la fiducia di cui godono, ma anche come vivono la professione gli addetti ai lavori e a quali rischi vanno maggiormente incontro per uno studio sui news media.

Con il Media For Democracy Monitor 2021, un gruppo di ricercatori europei ha provato a misurare lo stato di salute dei news media in diciotto paesi anche extra UE (ci sono infatti nel campione anche Canada, Corea del Sud, Australia e Cile per esempio). Lo ha fatto a partire da indicatori come la disponibilità e la varietà di fonti d’informazione, gli asset proprietari delle aziende media, la presenza di norme o codici deontologici e di autoregolamentazione in materia, le condizioni del lavoro giornalistico, in letteratura da sempre riconnessi alla capacità di chi fa informazione di assicurare un servizio pubblico e per il pubblico e farsi in questo modo garante della democrazia.

Professionisti e aziende media: una classifica di (paesi) virtuosi

I risultati non sono scontati: poche nazioni si avvicinano al punteggio massimo che si avrebbe soddisfacendo “a pieni voti” i tre macro-parametri del Media For Democracy Monitor 2021. Solo Svezia e Danimarca, per esempio, hanno un punteggio maggiore di 70 su un massimo di 90 se si considera nel complesso libertà d’informazione e possibilità di accesso alle news, capacità dei media di rappresentare e mediare tra interessi diversi e di esercitare una funzione di controllo sul potere e sulle istituzioni. Finlandia e Regno Unito si collocano subito dopo, mentre per ritrovare l’Italia si deve scendere fino a metà classifica (con 56 punti su 90).

media for democracy monitor 2021 dati

Una tabella che mostra quanto i diversi paesi soddisfano alcuni standard rilevanti per il mercato dei media e dell’informazione. Fonte: Media For Democracy Monitor 2021/The Euromedia Research Group

Inevitabilmente ci sono fattori sociali, economici e soprattutto politico-istituzionali che incidono sul modo in cui viene svolto il lavoro giornalistico: non a caso, per esempio, bandiera nera per quanto riguarda la capacità dei news media di fare da “watchdog” del potere sono paesi come Hong Kong, dove da fine 2019 non si fermano le ondate di protesta degli attivisti pro democrazia, o il Cile.

Anche l’Italia si trova alle ultime posizioni, prima solo di Grecia e Australia, se si considera il solo parametro libertà di stampa e libero accesso all’informazione: in questo caso però, a guardare più nel dettaglio gli indicatori del Media For Democracy Monitor 2021, a incidere sul buono stato di salute dell’informazione italiana sembrano essere perlopiù aspetti organizzativi e di ownership e modelli di business fin qui adottati dalla maggior parte delle aziende media (attori del resto già da tempo individuati responsabili da chi si è chiesto “chi ha ucciso il giornalismo?”).

Media For Democracy Monitor 2021: un focus sull’Italia

La maggior parte degli italiani (l’80%) avrebbe regolarmente accesso all’informazione e solo una nicchia (del 5%) dice di non informarsi affatto. Tante sono le tipologie di media a cui gli italiani attingono per tenersi informati e, almeno a livello di disponibilità, non mancano in tutto il territorio nazionale fonti diversificate, anche a copertura iperlocale o che danno voce a minoranze e gruppi d’interesse dei più vari. Nonostante questo, 7 italiani su 10 dicono di attingere a una sola fonte di informazione e i risultati del Media For Democracy Monitor 2021 concordano con altri studi di settore nel riconoscere la televisione come preponderante all’interno della dieta mediatica degli italiani, soprattutto quando si tratta di consumo di news.

Ancora, le fonti governative e istituzionali continuano a godere di una buona credibilità presso gli italiani, anche se in molti dicono di fidarsi di più di notizie e informazioni che ricevono direttamente da amici e contatti personali. Il prezzo dei media privati e indipendenti – che The Euromedia Research Group considera un potente indicatore di accesso democratico all’informazione – rappresenta una potenziale vulnerabilità per il sistema dell’informazione italiano: quando è alto rischia di essere inaccessibile, infatti, per famiglie e individui con più basso reddito (non a caso è una voce per cui l’Italia è ferma a due punti su tre).

Modelli di business e asset proprietari sono la principale vulnerabilità dei news media italiani?

Il livello di allerta del Media For Democracy Monitor 2021 si alza quando si tratta di considerare, come si accennava, assetti proprietari e modelli di business dei news media italiani.

Il panorama dei media outlet italiani risulta «moderatamente concentrato», stando ai dati dell’osservatorio, sia a livello nazionale e sia a livello regionale (anche in questo caso i news media italiani sono fermi a 2 punti su 3). Molto più pragmaticamente significa che la proprietà di testate, emittenti e altri canali da cui passa l’informazione nostrana appartiene, come non è del resto mistero, a relativamente pochi grandi gruppi.

Ancora, il modello di business adottato dalla maggior parte dei soggetti che si occupano di informazione in Italia è basato prevalentemente sulla raccolta pubblicitaria e, sebbene i reparti commerciali rimangano formalmente “estranei” al lavoro di redazione e di desk, questi ricercatori non sembrano particolarmente convinti della possibilità di escludere categoricamente influenze a livello di linee e scelte editoriali (tanto da dare solo un punto su 3 alle regole adottate dalle aziende media italiane contro le influenze esterne).


Più in generale la voce trasparenza non è quella in cui sembra eccellere il sistema dell’informazione italiana: anche quando si tratta di fonti, newsworthiness e selezione delle notizie, processi a cui le stesse sono sottoposte mancano ancora adeguati strumenti di accountability. Nonostante ciò, l’Italia raggiunge buoni risultati, invece, per quanto riguarda l’esistenza di codici etici e di autodisciplina della professione, la disponibilità di strumenti e iter che garantiscono almeno formalmente pluralismo e qualità dell’informazione e l’esistenza di authority deputate allo scopo (a come avviene il monitoraggio dell’informazione in Italia il Media For Democracy Monitor 2021 dà punteggio di 3 su 3).

La tradizionale organizzazione del lavoro giornalistico e la natura delle aziende media italiane sembra essere, comunque, anche la ragione – o una delle ragioni almeno – per i risultati non eccelsi in tema di capacità da parte di chi informazione per professione di comportarsi come watchdog del potere: l’Italia si trova anche in questo a caso a metà della classifica, in compagnia di paesi come Austria, Portogallo, Belgio.

giornalisti italiani cani da guardia del potere

In Italia manca una vera e propria tradizione del giornalismo inteso come watchdog del potere e delle istituzioni. Fonte: Media For Democracy Monitor 2021/ The Euromedia Group

C’entra sicuramente il fatto che “controllare i controllori” non è mai storicamente stata un compito a cui si è dedicata l’informazione italiana, così come è per ragioni storiche impossibile dire che la stessa manchi di continue e numerose interrelazioni con la politica (all’indipendenza dai decisori dei news media italiani il Media For Democracy Monitor 2021 dà voto 1 su 3). Il diretto corollario è che nell’organizzazione del lavoro giornalistico all’interno delle redazioni e nell’allocazione da parte di queste dei propri budget poco o pochissimo spazio viene riservato al giornalismo investigativo per esempio.

Fare informazione per professione in Italia: uno sguardo d’insieme

Per l’Italia come per gli altri paesi coinvolti nello studio, nel valutare lo stato di salute dell’informazione i ricercatori hanno preso in considerazione anche alcuni aspetti della professione giornalistica.

Come si accede a essa innanzitutto: nonostante la maggior parte di redazioni, newsroom, emittenti e aziende media italiane abbia messo a punto nel tempo meccanismi di selezione anche molto rigorosi, l’aver seguito un percorso di studi inerenti non sembra una discriminante indispensabile (quanto a “professionismo” di chi si occupa di informazione l’Italia è ferma a un punto su 3).

L’accesso al mercato del lavoro giornalistico italiano di nuove leve, come hanno sottolineato i ricercatori italiani durante l’evento di presentazione dei risultati del Media For Democracy Monitor 2021, sarebbe peraltro condizionato più dal loro minore potere contrattuale che dalla voglia di assicurare alle newsroom conoscenze innovative e al passo con i tempi come quelle di cui i giovani giornalisti sarebbero portatori. La cosiddetta job security è, del resto, uno degli aspetti più critici per quanto riguarda la professione giornalistica in Italia (tanto da meritare un solo punto su tre), con condizioni che variano sensibilmente di realtà in realtà e a seconda del tipo di inquadramento offerto al giornalista o al professionista dei media.

C’è un problema di gender gap all’interno delle aziende media italiane?

Nelle redazioni e nelle aziende media italiane sembra esserci, comunque, soprattutto un problema di gender gap : è vero, scrivono i ricercatori del Media For Democracy Monitor 2021, che negli anni la presenza di professioniste donne nel campo dei media è aumentata, ma è vero anche che è questo uno di quei settori, e non sono pochi, in cui la parità di genere è ancora lontana dall’essere raggiunta.

Uno dei problemi principali sembra essere, anche in questo caso, legato al glass ceiling e cioè alla maggiore difficoltà di fare carriera per le lavoratrici – e, nel caso di specie, per le giornaliste – donne. La mancanza di giornaliste in ruoli apicali accomuna in realtà molti paesi, anche diversi dai 18 presi in analisi dal Media For Democracy Monitor 2021: in occasione della Giornata internazionale della donna 2021, il Reuters Institute ha condotto per esempio uno studio in materia allargato a 38 nazioni.

Basandosi su alcuni dati della cassa previdenziale professionale La Stampa ha provato a descrivere più nel dettaglio di cosa è fatto il divario di genere all’interno delle redazioni italiane: ne è venuto fuori che le giornaliste italiane sono numericamente meno dei loro colleghi uomini e guadagnano meno (con uno scarto del 18% nel caso di contratti regolare e di poco più del 15%, invece, nel caso di freelance e collaborazioni occasionali); gender pay gap che si traduce prevedibilmente a fine carriera in un forte divario anche a livello pensionistico.

La minore presenza di giornaliste e professioniste dell’informazione donne influisce, tra l’altro, anche sul tipo di narrazione genericamente veicolato dai media mainstream, come avevano già fatto notare in passato anche altri studi: anche il Media For Democracy Monitor 2021, così, dà ora all’Italia voto 1 su 3 a causa della «marginalizzazione dall’agenda media» di cui le donne sono vittime. Il tutto senza contare che proprio le giornaliste donne sarebbero più spesso vittime di insulti, minacce, abusi in Rete.


Più in generale, l’Italia sembrerebbe il paese europeo in cui i professionisti dell’informazione sono più sistematicamente esposti a online harassment e shitstorm. Odio e violenze virtuali a cui si aggiungono, in qualche caso, minacce e intimidazioni anche fisiche da parte della criminalità organizzata, specie nel caso in cui gli stessi siano autori di indagini o articoli di approfondimento sul tema. L’incapacità della maggior parte delle aziende media di offrire a propri dipendenti e collaboratori, soprattutto in casi come gli ultimi, adeguato sostegno è costata all’Italia medaglia nera in tema di protezione dei propri giornalisti (con 1 voto su 3 attribuitole dal Media For Democracy Monitor 2021).

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