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Ci sono davvero meno fake news dopo il ban di Trump dalle principali piattaforme digitali?

Ci sono davvero meno fake news dopo il ban di Trump dalle principali piattaforme digitali?

Chi ha analizzato una settimana di conversazioni in Rete dopo il grande deplatforming di Trump ha notato una diminuzione di bufale, disinformazione e hashtag controversi. Il (buon) risultato potrebbe dipendere però anche da altri fattori.

Sono passati poco più di dieci giorni, eppure si conterebbero già meno fake news dopo il ban di Trump dalla maggior parte delle piattaforme digitali. Una buona notizia che, se confermata, darebbe ragione a chi fin da subito ha considerato il grande deplatforming dell’ex presidente americano «un precedente», rischioso sì, ma indispensabile per la salute del discorso pubblico online.

Con Trump fuori dalle piattaforme in Rete diminuiscono bufale, odio e complottismi: la ricerca

È stata Zignal Labs, con uno studio pubblicato originariamente da The Washington Post e ripreso poi da numerosi media di settore tra cui Business Insider, a provare a capire cosa stesse succedendo alla disinformazione online dopo la chiusura degli account di Trump «a tempo indeterminato». In una settimana, a partire dal 9 gennaio 2021, il giorno dopo la decisione di Twitter e le altre di silenziare il repubblicano, la quantità di bufale e notizie manipolate sulle elezioni americane sarebbe crollata di almeno il 73%: i contenuti in cui in diverso modo erano menzionati frodi e brogli elettorali sarebbero passati infatti da oltre due milioni e mezzo a poco più di 680mila. Con un’analisi più strettamente linguistica, la società ha osservato che nella stessa settimana espressioni come “stop the steal” o “shredded ballot”, diventate una sorta di motto dei sostenitori di Trump e dell’idea che il voto del 3 novembre 2020 sia stato pilotato e oggetto di gravi irregolarità, hanno avuto dal 70% a oltre il 90% di ricorrenze in meno in Rete. Non solo meno fake news dopo il ban di Trump dai social media : l’impressione è che cominci a esserci in generale meno spazio per i toni accesi e il linguaggio dell’odio: anche l’uso di hashtag come #FigthForTrump, #HoldTheLine o #MarchForTrump, tutti in diverso modo legati all’assalto di Capital Hill, si sarebbe ridotto di almeno il 95% e, in maniera simile, sarebbero molto meno usati anche gli hashtag riferibili ai complottisti di QAnon (anche se, come sottolinea la ricerca, è possibile che i cospirazionisti stiano usando in Rete dei “linguaggi in codice”, riempiendo i propri post di termini che iniziano con la lettera “Q” per esempio).

C’è una lista (completa e aggiornata) di tutti gli insulti usati da Trump su Twitter

Non è un mistero che, fin dall’inizio della propria carriera come candidato repubblicano prima e presidente degli Stati Uniti poi, Trump abbia sfruttato la presenza sui canali digitali per esacerbare la polarizzazione, se non letteralmente alimentare l’odio, nei confronti della controparte politica e di chi più in generale non fosse d’accordo con le proprie posizioni, non mancando in più di qualche rara occasione di dare spazio a “fatti alternativi” e complottismi. Nell’ultimo giorno di presidenza, The New York Times ha pubblicato la lista completa degli insulti usati da Trump su Twitter: da «zimbello patetico» e «politico corrotto» rivolti a Joe Biden a «ipocrita totale» detto di Neil Young, ce n’è per tutti e per tutti i gusti. In questi cinque anni «Donald J. Trump ha usato Twitter per lodare, persuadere, intrattenere, fare pressioni, stabilire la sua versione degli eventi e, forse in modo più notevole, per amplificare il suo disprezzo», scrivono infatti dalla testata. Disprezzo che non ha mai risparmiato, per esempio, stampa e media, a cui sarebbe riferibile almeno il 10% tweet offensivi postati da Trump. Guardando la lunga lista di The New York Times è possibile farsi rapidamente e visivamente un’idea dei soggetti – e sono davvero tanti – che nel tempo sono stati al centro del mirino delle offese di Trump.

insulti di Trump su Twitter

Dopo averle dedicato due pagine a stampa nel 2016, “The New York Times” ha aggiornato la lista completa di tutti gli insulti pubblicati da Trump su Twitter dal 2015 al 2021. Dall’avversario alla corsa presidenziale del 2020 Joe Biden a Neil Young, passando per stampa e media in generale, le vittime sono tante, così come tanti sono gli epiteti tutt’altro che eleganti che il politico ha riservato loro. Fonte immagine: Rivista Studio

NY Times pubblica insulti di Trump su Twitter

E se meno fake news dopo il ban di Trump fossero l’effetto combinato di più fattori?

Meno fake news dopo il ban di Trump e meno odio liberamente circolante online rappresentavano una sorta di risultato da attendersi fisiologicamente dopo la grande “depiattaformizzazione” di uno dei più forti odiatori seriali con cui da sempre la Rete ha dovuto fare i conti. Non si può non considerare anche, però, che quelle appena passate sono state settimane in cui le big tech sembrano aver intensificato i propri sforzi di sorveglianza sul rispetto delle policy e per punire comportamenti scorretti da parte degli utenti. Twitter ha rimosso oltre 70mila account riconducibili ai complottisti di QAnon proprio nelle stesse ore in cui sospendeva Trump a tempo indeterminato, per esempio. Già all’indomani del voto americano, invece, era stato chiuso il gruppo Facebook “Stop The Steal 2020” i cui oltre 350mila membri contestavano i risultati delle urne, non di rado incitando alla violenza. Ancora, Facebook ha chiesto agli amministratori di alcuni gruppi pro Trump di approvare manualmente i post al loro interno per almeno sessanta giorni per evitare gravi violazioni di policy e linee guida della community, anche in considerazione del fatto che erano gruppi in cui circolavano non di rado bufale sui brogli alle elezioni e gravi offese alle istituzioni americane.

Allontanare le voci che minano l’integrità del discorso pubblico, soprattutto quando questo significa bannare uno dei più influenti personaggi politici al mondo, può sembrare certo una scelta ad personam. E in effetti sia il CEO e founder di Twitter, Jack Dorsey, e sia Adam Mosseri, il “capo” di Instagram, per esempio, si sono detti preoccupati – come già si accennava – di come il ban di Trump possa rappresentare «un pericoloso precedente». Più che di una scelta personalistica, però, forse sarebbe giusto parlare di una scelta politica. A patto che “politica” si possa definire, per parafrasare ancora le parole di Adam Mosseri a Decoder, il podcast di Nilat Patel per The Verge, l’ammissione di responsabilità di un’azienda privata (quali sono le grandi aziende che non fanno oggi brand actvism?, ndr) davanti alla violenza generata da ciò che succede all’interno di una sua piattaforma proprietaria o, più in generale, all’impatto sul coretto corso della vita democratica di un Paese.

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