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Perché Facebook ha bloccato ads di Trump che usavano simboli nazisti e a che punto è la querelle tra il governo americano e le big digitali

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Facebook ha bloccato ads di Trump che usavano simboli della Germania nazista e inneggiavano all'odio razziale: le ragioni della decisione.

La querelle tra il presidente americano e le big digitali non sembra destinata a fermarsi: è di queste ore, infatti, la notizia che Facebook ha bloccato ads di Trump contenenti simboli razzisti o, meglio, «incitanti all’odio organizzato» per usare le parole dei moderatori di Facebook.

Perché Facebook ha bloccato ads di Trump con simboli razzisti

L’annuncio in questione era stato pubblicato da una pagina satellite di quella ufficiale, ma chiaramente riconducibile comunque al presidente e al vicepresidente Mike Pence. Nell’occhio del ciclone soprattutto il triangolo rosso rovesciato scelto come visual della sponsorizzata: qualche volta usato come simbolo da un movimento americano di estrema sinistra e anti-fascista, è infatti lo storico distintivo utilizzato nei lager della Germania nazista per riconoscere deportati comunisti e altri oppositori politici e, in quanto tale, viola esplicitamente le linee guida della piattaforma sulla pubblicazione di contenuti che rappresentano «organizzazioni e ideologie che inneggiano all’odio», tanto più se la pubblicazione avviene senza fornire «un adeguato contesto o qualche forma di condanna».

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La sponsorizzata di Trump bloccata da Facebook perché considerata inneggiante a discriminazioni razziali e odio organizzato e, in quanto tale, violante le policy della piattaforma. Fonte: Snopes

Formalmente le ragioni per cui Facebook ha bloccato ads di Trump inneggianti all’odio razziale hanno a che vedere, insomma, con le policy previste dal team di Zuckerberg per annunci pubblicitari e contenuti a pagamento condivisi dai politici. Policy che, a guardarle bene, sembrano più stringenti persino di quelle applicate su post e contenuti organici pubblicati dalle pagine ufficiali di ministri, leader di partito, capi di stato, su cui, suscitando non poco scalpore, da Palo Alto hanno chiarito non molto tempo fa di non essere più intenzionati a fare fact-checking.

Se per la campagna elettorale per le prossime presidenziali americane si preannunciano ingenti spese da parte dei candidati in campagne di social adv, insomma, anche per evitare grossi scandali come quelli che hanno caratterizzato le ultime tornate elettorali, quello di Facebook sembra un atteggiamento di maggior cautela rispetto al passato, come dimostra peraltro il lancio in queste ore di un election hub che dovrebbe rendere più facile per gli elettori americani registrarsi al voto, ma anche filtrare fake news e notizie manipolate ed evitare di cadere vittime di campagne di disinformazione.

Sono gli utenti a chiedere alle big digitali più responsabilità per i contenuti postati?

Il sospetto è però che Facebook abbia bloccato ads di Trump come quella in questione anche in risposta ai fatti delle scorse settimane, quando molti dipendenti hanno scioperato contro la decisione di Zuckerberg di non bannare un post in cui, riferendosi ai fatti di Minneapolis, il presidente inneggiava esplicitamente alla violenza, post che era già stato segnalato da Twitter come «infondato».

Sembra essere in atto, insomma, una corsa a chiedere una maggiore «platform accountability» – così la chiama Poynter. – e cioè una maggiore responsabilità e un maggior impegno da parte di piattaforme e servizi digitali nel garantire un discorso pubblico di qualità. Sfida che, ancora, Twitter ha già raccolto scovando centinaia di migliaia di account fake russi, cinesi e turchi che diffondevano fake news o introducendo una nuova funzione che chiede agli utenti di aprire link e articoli prima di fare retweet per esempio.

Difficile pensare, così, che da casa Zuckerberg siano disposti a restare indietro, tanto più che in gioco c’è l’attrattività dei propri servizi e dei propri ambienti agli occhi degli internauti e che decisamente passati sono i giorni in cui quella di Facebook era una posizione assolutamente dominante per numero di iscritti o tempo trascorso online.

Difficile pensare allo stesso tempo che Trump sia disposto a cedere di fronte a questa ondata di interventismo da parte delle piattaforme digitali, considerando anche che i social hanno sempre avuto un ruolo decisivo all’interno della sua strategia di comunicazione.

E, in effetti, dalla Casa Bianca non sono tardati ad arrivare in queste settimane ordini esecutivi e proposte di intervento sulla, ormai nota anche in Italia, Sezione 230 del Telecommunications Act del 1996, che garantisce ai gestori delle piattaforme digitali una sorta di scudo dalla responsabilità rispetto ai contenuti condivisi dagli utenti. Tra l’altro, il presidente americano, in questa lotta per regolamentare le possibilità d’azione delle piattaforme, ha il sostegno degli elettori americani o almeno della fetta più conservatrice dell’elettorato a stelle e strisce. Secondo una ricerca di Gallup e Knight Foundation, infatti, il 65% degli americani vorrebbe che la Rete fosse un luogo dove esprimersi liberamente e allo stesso tempo almeno otto intervistati su dieci non credono che tocchi alle big digitali prendere decisioni riguardo ai contenuti che appaiono nei propri feed o alla possibilità di rimuovere gli stessi.

In un clima teso come questo, così, non sorprendono repliche come quella arrivata dopo che Facebook ha bloccato ads di Trump contenenti simboli nazisti e inneggianti all’odio razziale: «Facebook ha ancora in uso l’emoji di un triangolo rosso rovesciato esattamente identico [a quello che ha portato alla cancellazione della sponsorizzata in questione]», ha sottolineato un portavoce del presidente, non prima di aver definito l’uso dello stesso simbolo come «strettamente contestualizzato» perché all’interno di un post riguardante un movimento di estrema sinistra molto noto nel Paese per le proprie posizioni antifasciste.

facebook ha bloccato ads di trump replica

Su Facebook si può ancora usare un triangolo rosso rovesciato (il secondo a destra nella prima riga, ndr) “esattamente identico” a quello che è costato il ban alla sponsorizzata di Trump, ha replicato un portavoce del presidente.

Un atteggiamento provocatorio, insomma, a cui il presidente Trump non è nuovo e che sembra rinvigorito in queste settimane dal fatto che anche le big digitali – insieme a giornali, professionisti dell’informazione e brand dei settori più diversi – stiano prendendo posizione rispetto alle politiche del governo americano e, soprattutto, davanti alle proteste di attivisti e simpatizzanti del Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd.

Trump accusa i media di fare disinformazione twittando un deep fake (e Twitter lo segnala)

E se ogni occasione è buona per fare campagna elettorale, gli spin doctor del presidente stanno cavalcando anche l’attuale querelle Trump vs social media per dar adito alla vecchia accusa che i media, tutti media, manipolino la realtà e siano responsabili in prima persona dell’attuale clima di disinformazione.

A non poche ore da quando Facebook ha bloccato ads di Trump ritenute razziste, così, su Twitter è diventato virale un video pubblicato dall’account ufficiale del presidente che ricostruirebbe il modo in cui anche testate considerate affidabili come la CNN realizzino ad arte i propri servizi per far credere che anche un semplice gioco tra due bambini, di cui uno di colore, sia in realtà la fuga di quest’ultimo dal bambino bianco razzista. Come spiega anche il Post, il video di Trump di cui tutti parlano in realtà non è mai andato in onda sulla CNN. Anzi, già mesi fa l’emittente aveva pubblicato la tenera scena, facendo notare la gioia dei due bambini nell’incontrarsi e l’indifferenza degli stessi rispetto al diverso colore della pelle. Trump ha twittato un video fake, cioè, ottenuto sovrapponendo a degli spezzoni del servizio originale un finto sottopancia in perfetto stile breaking news e che replica font e visual della CNN per ricreare il titolo, fake anche questo va da sé, “Terrified todler (sic) runs from racist baby” (letteralmente “Neonato terrificato (sic) scappa da bambino razzista”).

trump twitta video manipolato del bambino razzista

Trump twitta un video in cui accusa la CNN di aver scambiato, in un servizio, dei giochi innocenti tra due bambini come la fuga di quello di colore dal “bambino razzista bianco”, ma Twitter segnala il video di Trump come “manipolato”.

Non è la prima volta che succede: sempre con l’obiettivo di mostrare come i media manipolino la realtà, solo poche ore prima il presidente aveva condiviso un altro finto servizio della CNN su un cliente bianco che insegue un driver di Uber di colore. È la prima volta semmai che Twitter segnala come «contenuto multimediale modificato» il video di Trump sul (finto) bambino bianco razzista. La scelta è legata, certo, a quanto detto fin qua e, cioè, alla volontà sempre più forte delle big digitali, e di Twitter in primis, di giocare la propria parte contro campagne di disinformazione sistemiche da parte di soggetti pubblici come i politici. Non si può non sottolineare anche, però, che la piattaforma di Dorsey è, a oggi, quella che ha policy forse più chiare riguardo ai deep fake, policy che vietano appunto la pubblicazione di «video ingannevolmente alterati» com’è certo quello di Trump.

Anche se, almeno a sentire l’inevitabile buzz sui social generato dalla trovata presidenziale, Trump o chi per lui potevano impegnarsi di più: per essere un deep fake è fatto proprio male, chiosa la Rete.

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