Home / Marketing / Anatomia dei fake influencer: ovvero come gli influencer finti “drogano” il mercato

Anatomia dei fake influencer: ovvero come gli influencer finti "drogano" il mercato

Fake influencer: chi sono, che danni fanno, come evitarli

Sono tanti da rappresentare, quasi, un mercato parallelo: un ritratto dei fake influencer e qualche consiglio alle aziende su come evitarli.

Non ci sono solo (famose) campagne di influencer marketing che hanno avuto esito negativo a dir poco: osservati speciali da parte di marketer e aziende intenzionate a investire nel campo sono diventati nel tempo soprattutto i cosiddetti fake influencer : influencer con community gonfiate nei numeri o che si provano sistematicamente in attività sospette e di black hat o che, ancora, mentono sulle collaborazioni con i brand .

Fake influencer: qualche numero

I numeri non sono rassicuranti in questo senso. HypeAuditor per esempio ha provato a calcolare, paese per paese, quanti influencer fraudolenti ci sono: l’Italia si è mostrata bandiera nera con appena il 33% di influencer non impegnati sistematicamente in attività sospette, in compagnia di paesi come l’India, la Germania (qui la percentuale sale al 36%) e il Brasile (37%); decisamente più virtuosi sarebbero invece gli influencer giapponesi, impegnati solo in un caso su due in attività di dubbia natura e che potrebbero danneggiare brand e aziende con cui chiudono collaborazioni.

fake influencer quanti sono

La percentuale di account di influencer privi di attività sospette in ogni paese. Fonte: Hyperauditor

Anche quando si guarda al lato aziende, del resto, i dati sono tutto tranne che positivi. Points North ha stilato una classifica dei brand che più sono stati vittime di fake influencer: classifica secondo la quale Ritz-Carlton, la nota catena di hotel di lusso, avrebbe almeno il 78% di influencer finti ma sarebbe in buona compagnia di aziende dei settori più disparati come L’Occitane (per cui, però, la percentuale scende al 39%), Pampers (32%), Crocs (25%), Magnum (20%).

Per un’anatomia dei fake influencer

Chi è, però, e cosa fa un fake influencer? Quasi sempre sono semplicemente degli utenti Instagram o degli iscritti a qualsiasi altro social «con profili molto gonfiati – come ha spiegato in un’intervista a Marketers World 2019 Lorenzo Tombari, digital marketing specialist di Loop – ma tali che, se si va a misurare l’engagement per esempio per post e contenuti, ci si rende subito conto che quei numeri non rispecchiano la realtà».

Fake influencer: chi sono e che rischi comportano per le aziende | Lorenzo Tombari
Fake influencer: chi sono e che rischi comportano per le aziende | Lorenzo Tombari

 

Stando ancora ai dati di Hyperauditor, un fake influencer è con più probabilità un A-list influencer o un influencer che abbia comunque un grosso seguito: solo il 31% dei profili con più di un milione di follower , infatti, sarebbe completamente estraneo ad attività fraudolente o scorrette quando in gioco ci sono collaborazioni con le aziende; percentuale che cresce fino a superare il 53%, invece, nel caso di micro influencer con una fanbase tra i mille e i cinquemila follower.

Trovare fake influencer, influencer “finti” sarebbe decisamente più comune tra i mega influencer, con numero di follower piuttosto alto, che tra i micro influencer, per esempio. Fonte: Hyperauditor

È il white paper di Buzzoole “Come combattere le frodi nell’Influencer Marketing” a spiegare più nel dettaglio quali azioni fanno di un qualsiasi utente social – perché è di questo che si tratta in fin dei conti – un fake influencer. Tra queste:

  • l’acquisto di follower, soprattutto se la piattaforma che il finto influencer elegge come principale per la sua attività è Instagram, o l’acquisto di visualizzazioni su YouTube se si tratta di uno youtuber e via di questo passo. Molte agenzie offrono servizi di questo tipo e li hanno affinati nel tempo, prevedendo per esempio che l’incremento di follower sia graduale e distribuito nel tempo e non concentrato nell’immediatezza dell’acquisto: è un trucco per provare a ingannare le piattaforme, dal loro canto sempre più impegnate a contrastare la presenza di profili fake e di bot al loro interno. Decisamente più funzionale è la via percorsa da altre aziende che possono contare su una rete di veri account Instagram, account localizzati in genere in Paesi come l’India e disposti a farsi pagare anche una cifra irrisoria per svolgere attività come seguire il profilo del cliente, commentare i suoi post, ecc.;
  • anche la pratica del follow-for-follow è piuttosto comune tra gli aspiranti influencer e consiste nel cominciare a seguire altri utenti in maniera random, sperando che questi facciano altrettanto, quando non addirittura chiedendolo esplicitamente e salvo smettere di seguirli una volta ottenuto il follower in più;
  • leggermente più sofisticata, ma non meno comune, è la pratica dei comment pods: vere e proprie reti di utenti che si mettono d’accordo per commentare reciprocamente l’uno il post dell’altro o per interagire l’uno con le Instagram Stories dell’altro in modo da far crescere, più che numeri grezzi come quelli della fanbase, numeri più significativi che riguardino le interazioni e l’ engagement generati dai propri contenuti. In Italia, ancora secondo Hyperauditor, oltre il 17% degli influencer utilizzerebbe questo stratagemma.

In non pochi casi tecniche come queste vengono utilizzate soprattutto nelle primissime fasi di vita del profilo social di un aspirante influncer, forse nella convinzione che una sorta di effetto di Rete possa agire nel rendere più credibile, in primo luogo agli occhi di un appassionato o un curioso dei temi che si intendono trattare, un profilo che abbia già un buon ammontare di follower, come se insomma più follower fossero da soli in grado di attirare ancora più follower.

Non si può dire, però, che i fake influencer non si siano dimostrati creativi nel cercare degli espedienti con cui attrarre le aziende. Un lungo articolo di The Atlantic racconta una pratica piuttosto in voga su Instagram soprattutto e che consiste nel taggarsi presso ristoranti di lusso, acquistare prodotti di beauty care e utilizzarli per dei mini-tutorial o indossare prodotti iconici sia di firm di alta moda sia di brand del fast fashion fingendo di avere accordi commerciali con questi o di essere parte di campagne di influencer marketing , e cioè utilizzando segni come gli hashtag #adv o #giftedby o la particolare funzione partnership di Instagram frutto di un codice di auto-regolamentazione tra i professionisti del settore per garantire quanta più trasparenza possibile a vantaggio del cliente finale. Cosa guadagnano in questo modo i finti influencer? Oltre a un po’ di visibilità in più, spesso legata alla risonanza del brand con cui fingono di aver collaborato oppure all’aver utilizzato hashtag o menzioni legate a vere campagne social o iniziative di marketing in atto, la possibilità ancora di innescare un processo a valanga, dal momento che non è raro che le aziende si rivolgano a un influencer piuttosto che a un altro sulla base delle sue collaborazioni precedenti. In qualche altro caso, non meno controverso, comunque sono addirittura le aziende ad accettare che certi utenti si fingano influencer coinvolti nelle proprie campagne dietro il pagamento di una somma di denaro o l’acquisto di un certo (ingente) numero di prodotti.

Influencer “finti”: che danni per le aziende e come tutelarsi

Al di là delle possibili implicazioni legali o che hanno a che vedere con la violazione delle policy delle piattaforme, attività come queste si rivelano in ogni caso dannose per gli asset aziendali. A un livello zero perché il budget investito nelle campagne di influencer marketing, quando gli influencer si rivelano fake, è di fatto un budget sprecato, che non genera ritorni concreti e da allocare più proficuamente in maniera diversa. Si pensi, però, al caso di un beauty influencer che finge di collaborare con un brand molto noto, perché alla ricerca di un po’ di visibilità a basso costo o di un po’ di prestigio presso i suoi follower: non si tratta solo di pregiudicare la (buona) riuscita di eventuali campagne reali di influencer marketing condotte dall’azienda, ma, anche e soprattutto, di intaccare la brand image se il suo non si rivela un profilo in linea con storia, valori, missioni aziendali. Dal canto loro, del resto, utenti comuni e potenziali clienti hanno pochi strumenti per accertarsi che un influencer sia un influencer vero e non sia invece un fake influencer, così come sono propensi a riconoscere come brand ambassador chiunque espliciti o rimarchi il proprio legame con un’azienda o i suoi prodotti.

Gli esperti del settore sono concordi, comunque, nel riconoscere buona parte della responsabilità per la diffusione e l’incidenza del fenomeno dei fake influencer direttamente alle aziende. Per molti anni queste hanno dato più importanza alla quantità che alla qualità, tenendo conto soprattutto di vanity metrics come la grandezza della fanbase o il numero di follower nella scelta dell’influencer giusto per le proprie campagne. E a guardare bene sembra che lo continuino a fare: la seconda edizione dell’Osservatorio Influencer Marketing-OIM ha sottolineato, infatti, che delle 9 aziende italiane su 10 che hanno all’attivo oggi campagne di influencer marketing la maggior parte sceglie ancora gli influencer con cui collaborare sulla base di numero di like, commenti, condivisioni e solo in secondo luogo tenendo conto di reach reale o sentiment dei post.

Stando a “Influencer Marketing 2020”, forse scottate dalle cattive esperienze avute fin qui, le aziende avvertirebbero oggi soprattutto il bisogno di rivolgersi a creatori di contenuti «genuini e trasparenti» e di assicurarsi che i follower dei propri influencer non siano comprati (così ha risposto il 42% del campione della survey condotta da Econsultancy). Insight come questi non rappresentano una sorpresa, ma non è corretto pensare neanche che per un’azienda o qualsiasi altro soggetto business che voglia provarsi nell’influencer marketing sia oggi difficile tutelarsi dai fake influencer. «Appena dai a un finto influencer un’attività da fare in cui puoi misurare la sua vera influenza anche in termini di conversioni (come portare persona a un evento, far aumentare le vendite, ecc.) ti rendi conto subito che è fake», ha spiegato infatti Luca La Mesa, presidente di P&G Alumni Italia, in un’intervista al Marketers World 2019.

Allo stesso modo semplicemente «stipulare contratti che mettano al centro i KPI in grado di rendere conto dell’efficacia dell’investimento» aiuta chi spende in influencer marketing a tutelarsi da frodi, attività sospette e fake influencer, ha fatto eco Lorenzo Tombari.

Altre notizie su:

© RIPRODUZIONE RISERVATA È vietata la ripubblicazione integrale dei contenuti

Resta aggiornato!

Iscriviti gratuitamente per essere informato su notizie e offerte esclusive su corsi, eventi, libri e strumenti di marketing.

loading
MOSTRA ALTRI