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Marchio Adidas, cos'è accaduto davvero al Tribunale UE?

Marchio Adidas, cos'è accaduto davvero al Tribunale UE?

Il Tribunale UE ha confermato la nullità del marchio Adidas. Quali le ragioni di questa sorprendente pronuncia?

Grande risalto mediatico è stato attribuito alla sentenza del 16 giugno 2019 (ECLI:EU:T:2019:427 – causa T‑307/17) del Tribunale dell’Unione Europea con cui l’organo giurisdizionale di primo grado dell’UE si è pronunciato sulla validità del  marchio Adidas, rigettando il ricorso proposto dalla multinazionale e confermando, per contro, il provvedimento dell’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO) con cui era stata annullata la registrazione del marchio in questione. Cerchiamo di capire, quindi, i motivi di questa decisione e, soprattutto, il contesto nel quale essa è maturata.

L’antefatto: il marchio Adidas e l’annullamento dell’EUIPO

Per comprendere su che cosa effettivamente si è pronunciato il Tribunale dell’UE occorre muovere dalla richiesta di registrazione che Adidas, il 18 dicembre 2013, aveva depositato presso l’EUIPO. Va sottolineato che l’organo in questione svolge un ruolo particolarmente importante per la tutela dei segni distintivi, giacché l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale, chiamato UAMI fino al 23 marzo 2016, può riconoscere diritti esclusivi ai fini della protezione di marchi, disegni e modelli validi e riconosciuti in tutta l’Unione Europea con un’unica domanda, mentre, diversamente, la registrazione di un segno distintivo presso la competente autorità di un singolo stato (per esempio l’Ufficio italiano Brevetti e Marchi) generalmente garantisce una tutela solo infra-territoriale.

Nel caso di specie, il marchio di cui si chiedeva la registrazione era strutturato come marchio figurativo costituito da «tre strisce parallele equidistanti di uguale larghezza, applicate sul prodotto in qualsiasi direzione». Il primo punto da mettere in evidenza, allora, è quello relativo alla esatta individuazione del marchio Adidas in questione. E, infatti, la struttura del marchio è quella che vediamo qui di seguito.

primo logo adidasMentre invece i loghi, che più comunemente troviamo sui capi d’abbigliamento, ne rappresentano delle variazioni, tra cui, per esempio, quella ottenuta attraverso la rotazione verso sinistra del marchio ed il suo troncamento su di un piano orizzontale.
A fronte della registrazione del marchio Adidas (ottenuta il 21 maggio 2014), tuttavia, il 16 dicembre 2014 la società Shoe branding Europe BVBA aveva presentato una domanda di dichiarazione di nullità del marchio controverso, invocando l’art. 52 (cause di nullità assolta) del Regolamento 207/2009 (corrispondente al vigente art. 59 del Regolamento 1001/2017) sul Marchio Europeo, deducendo essenzialmente l’assenza di uno degli elementi essenziali per potersi procedere alla registrazione di un marchio, ovverosia l’originalità: in altri termini, quindi, si contestava che il marchio Adidas fosse privo di carattere distintivo. Il competente ufficio dell’EUIPO condivideva i rilievi mossi dalla Shoe, provvedendo a dichiarare la nullità della registrazione ottenuta.

Contro il provvedimento di annullamento, Adidas aveva presentato un ricorso (che potremmo assimilare ai ricorsi amministrativi in opposizione del diritto italiano), chiedendo a un apposito ufficio dell’EUIPO di riconsiderare la decisione. È essenziale sottolineare che, già nel suo ricorso, Adidas non aveva contestato l’assenza di distintività intrinseca e originaria del marchio, sostenendo invece che tale requisito essenziale fosse stato successivamente acquisito in forza dell’uso che ne era stato fatto in tutto il territorio dell’UE (articolo 7, paragrafo 3 e articolo 52, paragrafo 2, del Regolamento n. 207/2009 – divenuti articolo 7, paragrafo 3 e articolo 59, paragrafo 2, del Regolamento 2017/1001).
Il ricorso, tuttavia, era stato respinto sulla base dell’assunto secondo cui, acclarata e non contestata l’assenza di originalità, Adidas non aveva dimostrato che il marchio in questione avesse acquisito carattere distintivo in tutta l’UE in base all’uso.

Il marchio Adidas al Tribunale UE

Contro il provvedimento dell’EUIPO di conferma dell’annullamento della registrazione, Adidas adiva la giurisdizione UE, ovverosia la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Va ribadito che la CGUE è in realtà un organo complesso, costituito dalla Cortee dal Tribunale: quest’ultimo è infatti generalmente competente per i ricorsi presentati dagli individui, mentre la Corte, oltre a essere giudice dell’impugnazione avverso i provvedimenti del Tribunale, tratta le richieste di pronuncia pregiudiziale presentate dai tribunali nazionali e i ricorsi per annullamento e le impugnazioni presentati dai cdd. ricorrenti privilegiati, ossia le istituzioni. Ciò detto, il ricorso presentato da Adidas si fondava, essenzialmente, su un motivo unico ma composito, in cui si denunciava la violazione della normativa sull’originalità acquisita in virtù dell’uso nonché la violazione dei principi di legittimo affidamento proporzionalità.

logo adidas

Per comprendere i termini giuridici della questione occorre poi sottolineare come la nullità del marchio comunitario venga in rilievo anche quando la mancanza di caratteri distintivi operi con riferimento anche solo a una parte del territorio dell’UE. In sostanza, proprio perché il marchio UE assume validità (e tutela) in tutta l’Unione, i relativi requisiti devono ovviamente sussistere in tutto il territorio europeo. Ciò, com’è facile immaginare, genera un problema di non poco momento allorquando, accertato che manchi in via originaria il requisito della originalità, colui che pretende di ottenere il riconoscimento del segno distintivo adduca l’acquisto successivo di tale carattere in base all’uso che di esso risulta esser stato fatto: il richiedente (o ricorrente), infatti, sarà sottoposto al gravoso onere di dimostrare che tale situazione si è verificata in tutti gli Stati Membri. Inoltre, osserva il Tribunale, a tutela delle ragioni che altri possano nel frattempo far valere, la distintività in base all’uso deve consolidarsi «prima della sua registrazione o tra la sua registrazione e la data della domanda di nullità (v., in tal senso, sentenza del 14 dicembre 2017, bet365 Group/EUIPO – Hansen (BET 365), T-304/16, EU:C:2017:912)».

In aggiunta a ciò, «tale carattere distintivo, intrinseco o acquisito in seguito all’uso, deve essere valutato, da un lato, rispetto ai prodotti o servizi per i quali viene richiesta la registrazione, e, dall’altro, rispetto alla percezione che di esso abbia il pubblico di riferimento (v., per analogia, sentenze del 18 giugno 2002, Philips, C-299/99, EU:C:2002:377, punti 59 e 63, e del 12 febbraio 2004, Koninklijke KPN Nederland, C-363/99, EU:C:2004:86, punti 34 e 75)», pubblico che – nel caso di specie – è rappresentato dai fruitori di prodotti di abbigliamento, scarpe e cappelleria, cioè gli ambiti merceologici indicati da Adidas nella richiesta di registrazione.

Le prove di Adidas e il problema delle varianti autorizzate

Per sostenere le proprie pretese, Adidas aveva sottoposto al Tribunale UE il dato per cui l’EUIPO non avrebbe considerato – ai fini della prova dell’originalità sopravvenuta – una serie di elementi. La multinazionale ha sostenuto, per esempio, che il segno distintivo si sarebbe dovuto qualificare come marchioa motivi“, ovverosia caratterizzato da una serie identica di rappresentazioni suscettibili di essere riprodotte in maniera indeterminata sul bene o servizio brandizzato. Ciò avrebbe comportato che il termine di paragone, per verificare il carattere distintivo del marchio Adidas, sarebbe risultato svincolato dalla specifica rappresentazione grafica depositata, soprattutto per quanto attiene alle dimensioni e alle proporzioni. Tuttavia, il Tribunale ha rigettato la censura, ritenendo che il marchio dovesse essere valutato sulla base della domanda depositata all’EUIPO e, più specificamente, sulla base della rappresentazione del segno distintivo contenuta in detta domanda. Nel caso di specie, come si è visto, Adidas reclamava la registrazione di un segno costituito da tra tre strisce verticali parallele ed equidistanti (con forma rettangolare di rapporto 5:1) e, peraltro, aggiunge il Tribunale, anche nella descrizione del marchio ci si limita a «precisare che tali strisce possono essere “applicate sul prodotto in qualsiasi direzione”, senza menzionare che la lunghezza delle strisce potrebbe essere modificata o che le strisce potrebbero essere tagliate in obliquo». Ci si trova in presenza, quindi, di un marchio figurativo ordinario non di un marchio a motivi, con ovvie conseguenze in punto di connotati distintivi. In altri termini, il discorso diventa: dinanzi a una mera figura rettangolare, quale quella sopra riprodotta, i consumatori riuscirebbero a riconoscerne l’attribuibilità a un certo brand?

Altro profilo che veniva in rilievo secondo Adidas per verificare il carattere distintivo acquisito del marchio in questione attiene ai suoi usi nelle varianti autorizzate. Si tratta di un profilo estremamente importante, perché Adidas intendeva utilizzare, per dimostrare l’originalità sopravvenuta, anche tutti quei suoi prodotti su cui il marchio non è impresso in maniera identica alla rappresentazione depositata, ma subisce delle «variazioni che comunque non alterano il carattere distintivo del marchio stesso». Vengono in rilievo, in altri termini, tutte quelle “permutazioni” del marchio Adidas, tra cui quelle più note sono

  • la rappresentazione del marchio in obliquo e tronco sul piano orizzontale;
  • la rappresentazione del marchio con schema di colori invertito (cioè con tre righe bianche con interstizi neri).

La commissione di ricorso aveva ritenuto, infatti, che la maggior parte dei documenti prodotti da Adidas (immagini tratte da cataloghi o altro materiale pubblicitario) non riguardasse il marchio controverso stesso, ma altri segni che differivano significativamente da tale marchio. In proposito il Tribunale innanzitutto afferma che, a fronte di un marchio figurativo estremamente semplice come il marchio Adidas, anche piccole variazioni possono far sì che il logo applicato sul prodotto non sia più riconducibile alla “legge delle varianti autorizzate”, ma venga ad integrare un marchio del tutto distinto come, a dire il vero, sembra evidente considerando alcune delle immagini prodotte da Adidas e riportate in sentenza, ove sono riprodotti, tra gli altri, l’iconico trifoglio e il marchio obliquo e tronco.

Maggiori perplessità, invece, suscitano le argomentazioni del Tribunale in ordine alla impossibilità di ricondurre alla “legge delle varianti autorizzate” i casi in cui il marchio Adidas era stato utilizzato con schema di colore invertito (bande rettangolari bianche su sfondo nero). Sul punto, il Tribunale argomenta in questo modo:

«il marchio controverso è un marchio figurativo che non contiene alcun elemento denominativo e che presenta poche caratteristiche. Una di tali caratteristiche è l’uso di tre strisce nere su fondo bianco. Detta caratteristica è all’origine di un contrasto specifico tra, da un lato, le tre strisce nere e, dall’altro, il fondo bianco nonché gli spazi bianchi che separano tali strisce. In dette circostanze, tenuto conto, in particolare, dell’estrema semplicità del marchio controverso e della rilevanza della caratteristica descritta […], il fatto di invertire lo schema dei colori, mantenendo un netto contrasto tra le tre strisce e il fondo, non può essere qualificato come variazione trascurabile rispetto alla forma registrata del marchio controverso».

Tuttavia si potrebbe ribattere nel senso che, se anche la mera inversione tra bianco e nero si ritiene eccentrica rispetto alla rappresentazione depositata, sostanzialmente la nozione di “varianti autorizzate” diventa pura apparenza, in quanto anche la più banale permutazione del marchio comporta l’ascrizione di quel segno distintivo a un diverso marchio.

L’esito del percorso argomentativo del Tribunale, a ogni modo, è la conferma dell’esclusione di quel poderoso compendio di immagini che Adidas aveva prodotto a dimostrazione di una distintività acquisita in base all’uso del proprio marchio. Tale vaglio, quindi, anche dal Tribunale UE viene effettuato sulla base del solo materiale già ammesso dell’EUIPO.

L’uso del marchio Adidas nell’UE

Il profilo cruciale del decisum del Tribunale UE, infatti, risiede nel pronunciamento relativo alla sussistenza o meno del dato per cui il marchio Adidas aveva acquisito un carattere distintivo in seguito all’uso che ne era stato fatto nell’Unione. E, infatti, secondo la casa d’abbigliamento, gli elementi prodotti (al netto di quelli non ammessi dall’EUIPO e dal Tribunale) sarebbero stati comunque idonei a dimostrare «l’uso intensivo del “marchio a tre strisce parallele equidistanti” nonché il riconoscimento di tale marchio da parte del pubblico pertinente e il fatto che esso lo percepirà come idoneo a designare i prodotti della ricorrente. Detta prova sarebbe fornita in relazione all’intero territorio dell’Unione».

Il punto di partenza da cui muove il Tribunale per verificare la correttezza dell’assunto di Adidas è che «per valutare l’acquisizione da parte di un marchio del carattere distintivo in seguito all’uso che ne è stato fatto, possono essere prese in considerazione, in particolare, la quota di mercato detenuta dal marchio, l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso di tale marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo, la percentuale degli ambienti interessati che identifica il prodotto o il servizio come proveniente da un’impresa determinata grazie al marchio, nonché le dichiarazioni delle camere di commercio e dell’industria o di altre associazioni professionali (sentenze del 4 maggio 1999, Windsurfing Chiemsee, C‑108/97 e C‑109/97, EU:C:1999:230, punto 51, e del 18 giugno 2002, Philips, C‑299/99, EU:C:2002:377, punto 60).

Per verificare se e in che misura siano soddisfatti i parametri in predicato è però opportuno ribadire che, come accennato, a giudizio del Tribunale, già «la commissione di ricorso ha giustamente respinto la maggior parte delle immagini prodotte dinanzi all’EUIPO dalla ricorrente sulla base del rilievo che tali immagini […] riguardavano segni che non erano complessivamente equivalenti alla forma registrata del marchio controverso». In buona sostanza, quindi, nonostante le 12mila pagine di immagini prodotte da Adidas, il Tribunale ritiene, per diversi ordini di ragioni, di condividere le conclusioni dell’EUIPO secondo cui esse non consentono di dimostrare che l’uso del marchio è stato sufficiente affinché una parte significativa del pubblico di riferimento identifichi grazie a esso il prodotto come proveniente da una determinata impresa. O, meglio, si ritiene che ciò non sia stato dimostrato con riferimento specifico al marchio Adidas così come depositato.

Con riferimento al fatturato e alle spese per il marketing e la pubblicità, Adidas aveva prodotto una relazione giurata dalla quale emergeva, anche a giudizio del Tribunale, che «la ricorrente (avesse) utilizzato in modo intenso e duraturo alcuni dei suoi marchi all’interno dell’Unione e destinato importanti investimenti alla promozione di questi ultimi». Tuttavia, il profilo di censura è sempre il medesimo: i dati in questione, infatti, si riferiscono alla totalità dei “loghi apposti sui prodotti Adidas e non specificamente al marchio così come registrato presso l’EUIPO e, inoltre, si riferiscono alla totalità dei prodotti commercializzati e dunque anche a settori merceologici diversi da quelli per i quali è avvenuta la registrazione (per esempio non vi rientrano le “borse per lo sport”, che non sono né abbigliamento né scarpe né cappelleria, ovverosia i settori indicati da Adidas). Dunque, il loro valore dimostrativo diviene praticamente nullo, in quanto non è possibile differenziare i dati relativi al marchio registrato e quelli relativi ad altri segni (non registrati).

Il punto sul quale franano definitivamente le pretese del marchio Adidas, poi, è quello della prova dell’uso in tutto il territorio UE. La multinazionale, infatti, aveva prodotto in giudizio degli studi di mercato che il Tribunale suddivide in due tipologie. Alcuni di essi, condotti tra il 2009 ed il 2011 in Germania, Estonia, Spegna, Francia e Romania, infatti, sono effettivamente ritenuti capaci di dimostrare un «grado di carattere distintivo» del marchio Adidas, inteso come «la percentuale di intervistati che percepiscono detto marchio come proveniente da un’unica impresa quando è utilizzato in relazione con l’abbigliamento sportivo o le attrezzature sportive», con risultati molto considerevoli (con punte del 63,5% tra il pubblico specializzato in Germania). Tuttavia – e torniamo nuovamente al punctum dolens – gli altri 18 studi presentati da Adidas, relativi agli altri paesi europei e a periodi temporali più ampi, sono considerati probatoriamente inutilizzabili, in quanto «realizzati a proposito di segni che non sono complessivamente equivalenti alla forma registrata del marchio controverso, in particolare in ragione dell’inversione dello schema dei colori o della modifica di altre caratteristiche essenziali del marchio controverso, come il numero di strisce».

Conclude allora il Tribunale che, nel caso di specie, «è pacifico che il marchio controverso è privo di carattere distintivo intrinseco in tutta l’Unione»,in quanto il richiedente non ha assolto al relativo onere della prova, giacché solamente per 5 dei 28 Stati Membri e per un lasso temporale di soli due anni si è dimostrato l’acquisto di connotati distintivi. La registrazione del marchio Adidas comunitario (oggi marchio dell’Unione Europea) resta quindi annullata anche se, contrariamente a quanto forse con troppa superficialità si è scritto, ciò non deriva dalla mancanza di distintività di tutti i simboli grafici che Adidas appone sui suoi capi, il che risulterebbe francamente assurdo e contrario ad ogni ragionevolezza.

Si tratta, invece, di una vicenda legata alle caratteristiche peculiari con cui la casa d’abbigliamento ha identificato il marchio per il quale ha richiesto la registrazione agli organi UE, nonché alla inutilizzabilità di gran parte del corredo probatorio prodotto per dimostrare la sussistenza di caratteri distintivi acquisiti in base all’uso. Del resto, la riprova di quanto detto è che una banale ricerca su Google relativa al “marchio Adidas” ci restituisce tutti i marchi prodotti (e dichiarati inammissibili) dalla casa di abbigliamento (o comunque gran parte di essi), tranne quello effettivamente depositato, a dimostrazione che è proprio nei contenuti e nelle mancanze della richiesta di registrazione che risiede il problema. Per capire una sentenza che, a primo impatto, pare contrastare con il comune sentire, allora, occorre – come al solito – comprendere le peculiarità della vicenda dalla quale essa deriva.

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