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Identificazione certa per gli utenti dei social: arriva la proposta di legge

Identificazione certa per gli utenti dei social: arriva la proposta di legge

Una proposta di legge vuole imporre ai social network l'identificazione certa degli utenti, al fine di combattere fake news e profili troll.

È nota la fortissima incidenza che l’universo dei social network ha assunto su molteplici aspetti della vita degli utenti, producendo fenomeni che vanno dalla nascita di nuove professioni, come quella dell’influencer, e di nuove forme di promozione turistica a risvolti significativamente negativi, come quelli correlati agli scandali Cambridge Analityca. Una delle problematiche più gravi che la diffusione massiva dei social ha generato, tuttavia, va sicuramente individuata nella proliferazione esponenziale e incontrollata delle cosiddette fake news, cioè di notizie del tutto inventate o comunque manipolate in maniera tale da generare fortissima indignazione nei confronti di lettori che, per disattenzione o per mancanza di un’adeguata alfabetizzazione (anche) digitale, non sono in grado di riconoscerle come tali. Il fenomeno in questione va considerato gravissimo, in quanto la manipolazione delle informazioni fatte pervenire ai cittadini può determinare il condizionamento di scelte decisive dell’individuo, come quelle elettorali. Non a caso, del resto, anche in vista delle prossime elezioni europee del 26 maggio, Facebook e Google hanno modificato la propria policy relativamente a post sponsorizzati, ads e lotta alle fake news e hanno aderito a codici di condotta contro la disinformazione online.

Tuttavia, è facile immaginare come ogni misura non potrà essere davvero efficace fino a quando non sarà possibile addossare agli autori delle pubblicazioni malevole tutte conseguenze sanzionatorie e risarcitorie previste dall’ordinamento per le loro condotte: centrale, allora, si manifesta il problema dell’assicurare un’identificazione certa per gli utenti dei social network. E, si badi, qui non viene in rilievo solamente il problema delle fake news , bensì il più ampio problema dell’idea (erronea) di tendenziale impunità che aleggia su chiunque commetta reati o illeciti attraverso i social (o, più in generale, il web): basti pensare, ad esempio, alla recentissima vicenda che ha interessato Pina Picierno, candidata PD alle Europee, sommersa da insulti misogini e affermazioni senza dubbio diffamatorie per via di una campagna di crowdfunding che “ricompensava” il contributore con la possibilità di incontrare il personaggio politico per un caffè o partecipare alla cena di ringraziamento per i sottoscrittori, a seconda dell’ammontare della donazione. Verosimilmente, la fiumana di insulti rovinata sulla candidata è stata agevolata dal fatto che i relativi autori, ritenendosi schermati dal display del proprio computer o del proprio smartphone, non hanno minimamente tenuto in considerazione il fatto di poter subire delle conseguenze anche molto gravi in considerazione delle offese gratuite in cui si sono profusi.

Ora, a ben vedere, questo convincimento è del tutto erroneo, perché la Polizia Postale e la Magistratura dispongono di strumenti tali da consentire di ricondurre una determinata pubblicazione online a un preciso soggetto (o, meglio, al titolare del dispositivo elettronico impiegato per la pubblicazione). E, dunque, le conseguenze sia penali che civili (sub specie di risarcimento del danno) di condotte del genere possono rivelarsi anche particolarmente afflittive. Basti considerare che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, in caso di diffamazione commessa a mezzo social network ricorre l’aggravante dell’impiego di un mezzo di pubblicità, giacché «la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile» di destinatari (Cass. Pen. Sez. 5 n. 16564 del 25/03/2019; Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, dep. 2017, Manduca, Rv. 269090 – 01).

Tuttavia, è chiaro che il lavoro delle forze dell’ordine e della Magistratura è spesso reso più complesso dalla facilità con la quale ciascun soggetto può registrarsi a un social network con generalità di fantasia oppure comunque non corrispondenti alle proprie, vale a dire nei casi in cui non sussiste un’identificazione certa per gli utenti dei social. In questo caso, ovverosia quando non è possibile individuare in maniera “visuale” e “immediata” l’autore del fatto (si tratti di pubblicazioni diffamatorie o di fake news), è comunque astrattamente possibile l’identificazione del soggetto attraverso l’indirizzo IP del dispositivo utilizzato. Senonché, com’è facile intuire, ciò richiede la collaborazione dei gestori delle piattaforme social e, ove tale cooperazione non si realizzi, l’unico strumento a disposizione dell’Autorità Giudiziaria – essendo i server in cui sono custoditi i dati in questione ubicati al di fuori dell’Unione Europea – è il vetusto e poco efficiente istituto della rogatoria internazionale.

Il problema dell’identificazione certa per gli utenti dei social: la proposta di legge

Il puctum dolens, quindi, è quello dell’identificazione certa per gli utenti dei social network, sia per evitare il problema dei bot (accertando, quindi, che l’utente sia umano), sia anche – come si diceva – per dare un volto a tutti coloro che usano i social network per insultare, diffamare e commettere reati di ogni genere (si pensi, ad esempio, alla ricettazione, attraverso la messa in vendita sulle piattaforme social di beni di provenienza illecita ovvero alla commercializzazione di materiale contraffatto).

Sul punto va innanzitutto sottolineato che la policy di Facebook – ossia il contratto che ciascun utente sottoscrive al momento di registrarsi al social – vincola all’uso per il proprio profilo di un nome corrispondente a quello con cui il soggetto è chiamato quotidianamente e, comunque, presente in un documento di identità ufficiale o in uno dei documenti che rientrano in un elenco apposito, ferma la possibilità di utilizzare anche dei soprannomi (lo pseudonimo, del resto, è tutelato anche dal nostro codice civile all’art. 9, che allorquando abbia assunto l’importanza del nome, vi estende la relativa tutela, nonché dall’art. 8 Legge sul diritto d’autore, L. 633/1941, che lo equipara al nome d’arte). In verità, però, Facebook accoglie una nozione molto restrittiva di soprannome, ammettendolo solamente per il primo o secondo nome (cioè, tecnicamente, per il prenome nome di battesimo) se sono una variazione del nome autentico.
Tuttavia, posto che al momento di registrarsi al social network non è richiesta l’esibizione di un documento di identità, in concreto la possibilità per i gestori della piattaforma di accorgersi dell’impiego di generalità non veritiere è praticamente nulla.

Ecco quindi la ragione che ha portato all’elaborazione di una proposta di legge (primo firmatario, Andrea Ruggieri di Forza Italia) per l’identificazione certa per gli utenti dei social e cioè per imporre ai gestori delle piattaforme social di pretendere dai propri utenti, all’atto della registrazione, l’inserimento del codice fiscale e l’upload sulla piattaforma di una scansione dello stesso. La proposta, quindi, non si spinge fino al punto di pretendere l’esibizione di un documento d’identità (essendo tali, secondo le previsioni del DPR 445 del 28.12.2000, solo quelli muniti di fotografia del relativo titolare, che invece la tessera sanitaria/codice fiscale non posseggono), ma compie perlomeno un primo passo nel responsabilizzare i gestori delle piattaforme social, imponendo loro un adempimento identificativo che dovrebbe almeno “scremare” la nutritissima platea di account “troll” presenti sui social network. L’autore della proposta di legge sottolinea come, se da un lato vada senz’altro mantenuta ferma la «massima libertà di pubblicare ciò che si vuole sui social», precisando che la novella legislativa «non impedisce a una persona di avere anche 5mila profili», dall’altro vada assicurata la «massima identificabilità di chi pubblica», con ciascun profilo chiaramente riconducibile a qualcuno che possa essere chiamato a rispondere di quel che, tramite esso, viene caricato in rete. L’articolato legislativo, a quanto consta non ancora disponibile sui siti istituzionali delle Camere, è titolato “Nuove disposizioni in materia di tracciabilità degli account social“, si compone di soli quattro articoli e vuol «contrastare ogni forma di violazione della dignità della persona, in particolare dei minori in quanto soggetti più deboli ed esposti sul web».
Il deputato firmatario supporta la necessità dell’azione di una più stringente normativa in materia, riportando alcuni episodi eclatanti:

«Innanzitutto, quello del filmato in cui un finto funzionario Bce dice ‘dobbiamo prendere alla gola gli italiani e strozzare l’Italia’, che fa 4 milioni di visualizzazioni. Un chiaro esempio di contenuto chiaramente falso, con una sua forte influenza ed effetto fuorviante»;

aggiunge, poi:

«c’è il recente video con ben 5 milioni di visualizzazioni di un ragazzo che si finge un ladro sul letto di ospedale, ferito dalla reazione di uno che ha sparato per legittima difesa: lui cattura l’attenzione con la frase ‘che ho fatto di male, volevo solo rubare qualcosa per mangiare, merito di morire? Allora la prossima volta vuol dire che mi porterò anch’io una pistola”»;

e ancora:

«di recente sono circolate immagini di due persone che avevano ottenuto il reddito di cittadinanza e sbeffeggiavano i lavoratori che ancora si alzano la mattina per lavorare. Poi si è scoperto che quel video era falso, ma nessuno è riuscito a sapere chi lo aveva messo in giro: sarebbe giusto capire chi fa questo tipo di scherzetti».

Si può sottolineare, peraltro, come altri gestori di servizi digitali già da tempo esigano un’identificazione veritiera dei loro utenti, richiedendo l’invio delle scansioni dei documenti di identità. Basti pensare, ad esempio, ai servizi di locazione immobiliare come Airbnb oppure quelli di noleggio veicoli come, in Spagna e Francia, Yego. La ragione per la quale tali servizi esigono che gli utenti esibiscano i propri documenti d’identità, tuttavia, è facilmente comprensibile: si tratta di operazioni nell’ambito delle quali il gestore può subire delle conseguenze negative in dipendenza del comportamento dell’utente (ad esempio, sottrazione del veicolo o danneggiamento dell’immobile) e quindi ha tutto l’interesse (oltre a ottenere l’indicazione di un mezzo di pagamento valido) a disporre delle esatte generalità delle sue controparti contrattuali. Tale interesse, attualmente, non sussiste invece per le piattaforme social che – con la significativa eccezione delle recentissime previsioni in materia di copyright online in alcune specifiche ipotesi – non subiscono effetti pregiudizievoli “in proprio” per i comportamenti illeciti dei relativi utenti. Ed è proprio questo, forse, il punto su cui riflettere, vale a dire il ruolo dei gestori delle piattaforme di social networking, che – per l’importanza che esse hanno assunto – non può più essere assimilato a quello dei fornitori di altri servizi online, dovendo essi essere chiamati a tutelare non solo il proprio interesse, bensì anche quello collettivo, con le responsabilità proprie di un regolatore.

Va sottolineato, inoltre, che – indipendentemente dai contenuti e dal rigore delle condizioni di utilizzo di Facebook e dalle sorti della proposta di legge appena analizzata – il registrarsi su di un social network con un’identità fittizia potrebbe integrare il delitto di cui all’art. 494 c.p., vale a dire quello di sostituzione di persona, che ricorre anche allorquando l’identità che ci si attribuisce sia immaginaria, non essendo necessario che corrisponda a quella di altre persone, se l’attribuzione a sé di un falso nome induce in errore un terzo ed è finalizzata a cagionare a essa un danno oppure ad assicurare all’autore del fatto o a terzi un vantaggio. La Cassazione, peraltro, ha precisato che «integra il delitto di sostituzione di persona la condotta di colui che crea ed utilizza un “profilo” su social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un “nickname” di fantasia ed a caratteristiche personali negative» (Cass. pen., sez. V, 23 aprile 2014 n. 25774). Tale reato, ovviamente, va posto in concorso con gli altri eventualmente realizzati, attraverso il profilo “fake”, come ad esempio la diffamazione aggravata.

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