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25 anni di racconti in Rete: come è cambiato il web storytelling

25 anni di racconti in Rete: come è cambiato il web storytelling

Scout, supereroi, spie: 25 anni di racconti in Rete. Ne ha parlato Andrea Fontana al Festival della Comunicazione di Camogli.

Il 23 agosto 2016 la Rete ha compiuto 25 anni: un quarto di secolo da quando il primo internauta della storia – dopo Tim Berners-Lee s’intende – ha avuto accesso al World Wide Web. Com’è cambiato da allora il nostro modo di raccontarci in Rete? La risposta ha provato a darla al Festival della Comunicazione di Camogli il 10 settembre 2016 Andrea Fontana, docente universitario e storytelling expert.

C’è stata un’epoca, agli esordi del web, in cui la nostra esperienza in Rete era caratterizzata dal tempo, quello scandito dal suono di un modem a 56k e ben diverso dalla connettività immediata e a banda larga che, di fatto, ha ridotto il nostro essere online a un atto pre-riflessivo, frutto di quello che qualcuno indica come un tecno-inconscio immediato e funzionale alle nostre attività 2.0. Essere connessi, appunto, contro l’andare in Rete che contraddistingueva l’attività dei primissimi internauti. Una differenza lessicale non da poco: agli albori del web, navigare era un’azione tutt’altro che immediata, per diversi versi: non sapevamo dove andare, non c’erano “soste” obbligate per la loro stickiness come i social, le informazioni non ci arrivavano, ma eravamo noi a cercarle e a questo servivano, per esempio, i primi motori di ricerca. Il nostro racconto della Rete era, così, un racconto avventuroso ed eroico, un racconto fatto di testi, quelli dei primi siti Internet che, pur trasformando tramite i collegamenti ipertestuali la lettura da sequenziale a random, assomigliavano ancora molto ai testi dell’era Gutenberg.

Era un racconto per certi versi anche molto fisico, fatto di azioni concrete come i primi acquisti online (quello di un laser non funzionante che inaugurò il successo di eBay, per esempio) e, soprattutto, un racconto fatto di persone. Come Jennifer, una studentessa americana che con una webcam e una manciata di video in cui raccontava la sua giornata inventò quel live stream della vita quotidiana che è diventata il modo di “stare” sui social. O come Jorn Barger che, con una pagina personale su cui dava conto dei suoi due passatemi preferiti, caccia e pesca, inventò la professione di blogger .

Solo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 – ricorda Andrea Fontana a Camogli – arriva a cambiare il modo di raccontarci in Rete. È il tempo delle opinioni, delle notizie che vengono filtrate sulla base di interessi personali e della credibilità dei primi influencer , con tutti i dubbi legittimi sull’imparzialità dell’informazione che ne conseguono. Ma è, soprattutto, il tempo dei grandi racconti politici. C’è un video della campagna per le presidenziali americane del 2004 che ha fatto scuola: Bush incontra Ashley, una ragazza che nell’attentato al World Trade Center ha perso la madre e che da allora non ha più parlato; l’abbraccia, la consola dalle lacrime, riuscendo nell’impresa di farle ritrovare la parola perduta. Non sarà, però, l’unico esempio di storytelling che entra di prepotenza nella comunicazione politica : la strategia del team Bush – sottolinea Fontana – è emblema di un racconto in Rete che comincia a essere di problem solving (non a caso, di lì a poco, nascerà in Italia il blog di Beppe Grillo contro “la casta”). E, per la prima volta, è tempo di contro-narrazioni, soprattutto se lo sguardo va alla comunicazione aziendale.

Superato, finalmente, il dislivello informativo tra cliente e azienda, il primo gode di un empowerment che si traduce, per esempio, nella possibilità di lamentare e farlo pubblicamente, con mezzi e ad audience fino a lì inimmaginabili, un’esperienza di acquisto negativa. A delineare la strada è Dave Carroll, un musicista canadese, che racconta in un videoclip musicale, poi diventato virale, di come sia stato trattato male su un volo dell’United Airlines, costringendo la compagnia a delle scuse pubbliche e, di fatto, al primo esperimento di crisis management .

L’altro punto di svolta nel modo di raccontarci in Rete è, secondo l’esperto di storytelling, il caso Snowden. La rivelazione di presunti programmi di sorveglianza di massa da parte dei governi ha l’effetto, per certi versi paradossale, di trasformarci in spie. Ma «siamo spie senza ricordo – avverte Fontana – che si affannano a spiare sé stessi e gli altri, ma dopo due ore non si ricordano già più i dettagli di quel racconto».

Nel modo attuale di raccontarci in Rete, però, non si può non notare un altro elemento sostanziale: quello che facciamo sui social, spesso non è che limitarci a raccontare set narrativi. Con le foto dei piedi, quelle delle gambe abbronzate durante le vacanze estive o il foodporn che riempie la home di Instagram condividiamo, in altre parole, una dimensione individuale ma secondo grammatiche ben codificate e lo facciamo, spesso in maniera inconscia, pre-riflessiva, senza che questo impedisca al racconto di mantenere un significato proprio. Spesso, poi, i set finiscono per ripetere frame altrettanto stereotipati, come quello apocalittico, quello complottista e così via. L’impressione è, insomma, che disimpariamo a raccontarci, ignoriamo che ogni racconto ha bisogno di quella che in gergo è chiamata una ego-social action e altro non è che la necessità di tradurre il racconto in azione, meglio se dalla portata collettiva. E mentre noi disimpariamo, alcuni soggetti come le aziende imparano a farlo sempre meglio, affidandosi allo storytelling, in primo luogo, assumendo “voci” umane, perché le persone amano la voce umana, e giocando a distruggere alcuni principi cardini del marketing tradizionale, quelle che le vuole cristallizzate nella staticità di un pay-off, per esempio.

Scout, supereroi e spie, insomma, sono i topoi dei racconti di 25 anni di Rete, tanto che il racconto sia personale, tanto che si faccia aziendale.

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