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I resi a pagamento sono sempre più comuni, ma non piacciono altrettanto a chi compra online

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Sempre più negozi fanno pagare i resi soprattutto se non effettuati in store e su acquisti di valore contenuto. È una pratica sostenibile e più economicamente vantaggiosa per chi vende, ma non sempre apprezzata da chi compra.

Sempre più negozi e rivenditori stanno rendendo i resi a pagamento. A volte quella di far pagare per i resi viene pubblicizzata come una scelta più sostenibile: non solo, infatti, la possibilità di restituire gratuitamente i prodotti acquistati online potrebbe spingere ad acquisti compulsivi che tutto sono tranne che amici dell’ambiente, ma la gestione logistica di un reso, e cioè il suo ritiro all’indirizzo scelto dal consumatore o presso un punto di consegna e il viaggio per il ritorno nei magazzini del venditore, ha un’impronta carbonica non indifferente.

La vera ragione per cui chi vende online sempre più spesso decide di far pagare i resi, però, è di natura economica. Com’è noto da tempo i resi “seriali” abbassano considerevolmente il margine di profitto delle vendite online. Secondo dei dati citati1 da New York Post, una delle prime testate a descrivere il fenomeno, gestire il reso di un ordine dal valore di 100 dollari costa al merchant circa 27 dollari facendone almeno dimezzare il margine di profitto.

Se a questo si aggiunge che attualmente il 17% degli ordini effettuati verrebbe inviato in reso, una percentuale più che duplicata rispetto al 2019, si capisce perché i retailer stiano correndo ai ripari.

Da Zara ad Amazon: all’estero è sempre più comune far pagare per i resi

All’estero soprattutto, già da qualche tempo, chi vende online ha cominciato a prevedere condizioni speciali e fee per la restituzione dei prodotti.

Tra le aziende che hanno fatto da apripista c’è Zara che nel Regno Unito ha cominciato2, già prima di Natale 2023, a far pagare il reso dei prodotti acquistati online 1.95 sterline.

Altre aziende come H&M e Abercrombie & Fitch hanno presto seguito l’esempio della catena spagnola, rendendo i resi a pagamento per una cifra rispettivamente di 5.99 e 7 dollari.

Né le tempistiche e né il fatto che i primi a sperimentare i resi a pagamento siano state aziende del fast fashion è casuale.

Durante lo shopping natalizio, approfittando di sconti e promozioni come quelli di black friday e del cyber monday , si tende ad acquistare di più e più prodotti che non sempre si rivelano quelli migliori per le proprie esigenze o davvero graditi a chi li riceve come regali: una grossa fetta dei prodotti acquistati in questo periodo, così, torna indietro. Lo scorso Natale anche giganti come Amazon hanno dovuto allungare, non a caso, la finestra di tempo a disposizione per la restituzione degli articoli, con ogni probabilità proprio per poter gestire al meglio la mole di richieste di reso.

Chi vende capi e accessori di moda online fa da tempo i conti con pratiche come il wardrobing , ossia l’acquisto dello stesso capo in più misure e più varianti di colore da restituire dopo aver provato a casa quelle che vestono meglio, o il reso di capi che nonostante presentino ancora l’etichetta sono stati evidentemente utilizzati e non possono per questo più essere rivenduti. Per le aziende del fast fashion e dell’apparel far pagare per i resi sembra, insomma, anche un modo per provare a scoraggiare questi resi fraudolenti.

Per molto tempo, del resto, la restituzione gratuita della merce è stato un driver per convincere anche i più restii ad acquistare online e rassicurarli sull’affidabilità dell’ ecommerce . Ora che comprare online è un’abitudine sempre più diffusa anche tra chi un tempo continuava a preferire gli acquisti fisici, non stupisce la volontà da parte di chi vende di sperimentare alternative ai resi gratuiti più sostenibili sotto diversi punti di vista e, per molti versi, anche più coinvolgenti.

Non tutti i retailer, infatti, hanno optato direttamente per i resi a pagamento. C’è chi ha preferito formule più “ibride” e che abituassero gradualmente i consumatori all’idea che si potesse dover pagare per restituire i prodotti acquistati online. Tra queste ci sono, per esempio, il reso gratuito al di sopra di un certo valore di spesa o se effettuato entro un certo numero di giorni dall’acquisto. Negli Stati Uniti Amazon fa pagare una fee di un dollaro a chi effettua il reso in un punto di consegna, ma ha mantenuto i resi gratuiti per chi si reca in uno store Whole Foods o Kohl’s, azienda con cui ha apposite partnership .

Resi a pagamento: la situazione in Italia

In Italia H&M e Abercrombie & Fitch, tra i primi brand che hanno cominciato a far pagare per i resi, hanno optato per formule3 4che mantengono la restituzione dei prodotti acquistati online completamente gratuita, rispettivamente, per i membri del programma fedeltà di H&M e per chi intende effettuare il reso in un negozio Abercrombie & Fitch.

Chi ha analizzato i trend eCommerce del momento non ha dubbi nel sostenere che molti più brand, di diversi settori e a prescindere dalle dimensioni, potranno adottare in un futuro prossimo soluzioni simili per la gestione più efficiente e sostenibile dei resi.

Un’altra alternativa a rendere i resi a pagamento sarà, come ha già sperimentato qualche merchant italiano di piccole dimensioni, affidarli a un solo corriere selezionato: ciò implica, dal lato utente, più incertezze rispetto alla disponibilità nella propria zona di opzioni per il ritiro a domicilio o semplicemente di un punto di consegna vicino.

Proprio come i resi a pagamento possano impattare sulla customer experience è, forse, il punto ancora meno chiaro e su cui si sta indagando di più.

Gli italiani non sembrano disposti a pagare per restituire gli articoli acquistati online

Trustpilot ha condotto una ricerca su un campione di consumatori italiani che in passato hanno effettuato acquisti online e resi.

Tra i primi risultati emersi dalla ricerca ci sono le tipologie di prodotti per cui gli italiani effettuerebbero più resi e le ragioni che li spingono a farlo.

Con poca sorpresa shopping e moda è la categoria in cui vengono effettuate più restituzioni di prodotti acquistati online (poco meno di 6000 recensioni tra quelle analizzate da Trustpilot per la ricerca fanno riferimento a parole chiave come “rimborsi”, “resi” e simili), seguita da Vveicoli e trasporti (3640 recensioni) e da elettronica e tecnologia (2.953 recensioni).

Gli italiani mandano in reso un prodotto dopo averlo acquistato per tre ragioni principali: perché non è della giusta taglia (nel 68% dei casi), perché non appare come descritto o fotografato al momento dell’acquisto (45%) o perché non si addice alla persona che lo ha comprato (26%).

La possibilità di effettuare il reso sembra tanto importante per gli italiani che il 70% degli intervistati ha raccontato di controllare prima di procedere con l’acquisto che il negozio offra la possibilità di reso gratuito, ma anche che i luoghi fisici in cui poter effettuare il reso risultino comodi (nel 41% dei casi), che non ci siano “cavilli” per la restituzione della merce acquistata (34%) e che il periodo minimo per procedere con la restituzione sia di almeno 28/30 giorni (25%).

Più di un intervistato su due, ancora, avrebbe acquistato articoli aggiuntivi per assicurarsi che la spesa totale superasse l’importo minimo necessario per ottenere spedizione e resi gratuiti, pur essendo già quasi sempre consapevole (in un caso su quattro) di dover restituire gli stessi articoli.

Non sorprende, così, che la maggior parte degli italiani (il 68% degli intervistati da Trustpilot) consideri “sbagliata” la scelta di molti rivenditori di far pagare per i resi e che ben oltre un italiano su due (il 58%) per principio rinuncia ad acquistare da siti o negozi che hanno adottato la politica dei resi a pagamento.

Le politiche di reso sono considerate, insomma, ancora un indice di affidabilità del rivenditore da parte di molti italiani (l’83% degli intervistati) e tra quei fattori da cui può dipendere la decisione di acquistare o meno da un determinato negozio (per l’82% del campione).

Note
  1. New York Post
  2. CNN
  3. H&M
  4. Abercrombie & Fitch

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