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Chi ha diffuso più fake news sul coronavirus? Inevitabili sorprese e qualche conferma nella lista della BBC

chi ha diffuso più fake news sul coronavirus

La BBC ha individuato chi ha diffuso più fake news sul coronavirus, stilando non nomi ma "archetipi" di utenti responsabili della disinformazione.

Di cattiva informazione durante la pandemia ne è circolata tanta, al punto da costringere già nelle prime settimane l’Organizzazione Mondiale della Sanità a definire «infodemia» la diffusione incontrollata di notizie e informazioni riguardanti il coronavirus e, più tardi, a rendere disponibile un bot per Messenger che risponde a dubbi sul COVID-19 e aiuta gli utenti a orientarsi nel mare magnum di contenuti che riguardano il virus, la sua trasmissibilità, i sintomi della malattia, il suo decorso. Proprio quello di incappare in notizie false o manipolate sarebbe stato, del resto, uno dei timori più grandi di chi si è informato online durante la pandemia: per loro, e più in generale come tentativo di rendere più ordinata – e più vivibile – l’infosfera di questi mesi, la BBC ha creato una sorta di guida a chi ha diffuso più fake news sul coronavirus.

Non nomi ma archetipi di utenti che, consapevoli o meno, malintenzionatamente o meno,  hanno amplificato il clima di disinformazione durante l’emergenza coronavirus. Quello che la pandemia sembra aver provato definitivamente è, infatti, che non solo il giornalismo con i propri bias è responsabile di un calo netto e continuo della qualità dell’informazione: la responsabilità è, semmai, condivisa con tutti quelli che a diverso titolo si occupano di informazione o leggono i giornali, frequentano la Rete, ecc.

Dai troll ai familiari complottisti: così anche gli utenti comuni hanno amplificato la disinformazione sul coronavirus

Tra gli hoaxer da pandemia individuati dalla BBC ci sono, per esempio, i troll. Si tratta di utenti spesso ben noti in Rete, o perlomeno all’interno di alcune sue bolle, che non sono nuovi a cavalcare le notizie del giorno creandone a loro volta di paradossali, evidentemente fake e dal chiaro scopo ludico-satirico, come quella di una gigantesca lasagna che il governo avrebbe avuto intenzione di cucinare a Wembley per sfamare i londinesi in difficoltà. In Italia piuttosto virali in queste settimane di lockdown sono diventate la presunta video-testimonianza del paziente zero e la notizia dei cinesi risvegliatisi con la pelle scura dopo aver avuto diagnosticato il coronavirus: entrambe sono naturalmente false e create ad arte da Gian Marco Saolini, uno dei personaggi italiani della Rete più sui generis, famoso per essersi spacciato come agente della scorta di Saviano, medico di Nadia Toffa, marinaio licenziato di una nave di una ONG, sempre in possesso di presunte verità scottanti e taciute dall’informazione generalista da rendere note.

Se letti o guardati attentamente, contenuti come questi appaiono senza dubbio falsi, ma proprio perché giocano con quegli stessi meccanismi che mantengono in vita le fake news e complice il consumo veloce e distratto dei contenuti sui social, non è raro che siano scambiati e condivisi come veri. Soprattutto quando fanno leva su paura e preoccupazione, così fisiologiche durante un momento complesso come quello di un’emergenza sanitaria mai affrontata prima. Non a caso la BBC consiglia di fare attenzione anche a informazioni ricevute da familiari e amici: spesso l’ansia per la salute dei propri cari ha portato a condividere notizie tanto allarmistiche quanto infondate e, complice il (tanto) tempo libero in più passato in quarantena su social e app di messaggistica istantanea, su gruppi WhatsApp e simili hanno spopolato catene di Sant’Antonio di ogni sorta, tanto da costringere piattaforme e app ad azioni come limitare il numero di inoltri per messaggio, ecc.

Qualcuno potrebbe aver scoperto, tra l’altro, proprio grazie alle bufale circolate nelle chat di gruppo di avere tra i propri familiari o amici molti più complottisti di quanto pensasse. Valigia Blu, nel riadattare al contesto italiano la classifica della BBC di chi ha diffuso più fake news sul coronavirus, ha elencato alcune delle teorie del complotto sul coronavirus che più hanno preso piede anche in Italia: dalla famosa fuga dal laboratorio di Wuhan ai legami col 5G, ai piani dei ricchissimi della Terra che starebbero traendo beneficio economico dalla pandemia, passando per la distopica possibilità di sfruttare il virus per innestare microchip sottopelle che permettano di controllare gli individui. Le normali incertezze, anche da parte della scienza, sulle origini del virus e sui suoi effetti a breve e lungo termine hanno certamente favorito la diffusione di pseudo-teorie come queste.

fake news coronavirus catene di sant'antonio

Dall’inizio dell’emergenza coronavirus, anche in Italia hanno preso piede numerose pseudo-teorie sulle origini del virus, i suoi effetti, gli interessi di politici e potenti della terra che si celerebbero dietro alla pandemia, ecc. In molti casi le conversazioni di gruppo sulle app di messaggistica istantanea sono state il veicolo perfetto per far diventare virali le teorie del complotto.

Perché tra chi ha diffuso più fake news sul coronavirus ci sono anche personaggi famosi, influencer (e truffatori)

Pseudo-teorie che, peraltro, hanno potuto contare sul supporto da parte di personaggi famosi e celebrità. In Italia, per esempio, uno dei primi ad alludere alla fuga del coronavirus da un laboratorio di Wuhan fu Paolo Liguori. Più tardi Barbara Palombelli ha ipotizzato che i focolai di coronavirus più grandi nel Nord, e in Lombardia in particolare, fossero dovuti alla presenza in quella zona di più lavoratori e persone con senso del dovere. Un volto piuttosto noto a livello globale come il tennista Djokovic si è detto contrario al vaccino per il coronavirus, come a ogni altro vaccino, e lungo è l’elenco di celebrità che hanno suggerito bizzarri rimedi e cure contro il coronavirus, come quella a base dell’ormai famosa idrossiclorochina, reputata dall’OMS inefficace se non potenzialmente pericolosa per gli infetti da coronavirus, eppure in grado di contare su testimonial d’eccezione come Trump.
In questo senso la pandemia ha solo portato alla luce quello che diversi studi, ultimo in ordine di tempo uno firmato da Reuters Institute, provavano a dimostrare da tempo: per il seguito che hanno, per la fiducia di cui godono, per il desiderio di imitazione che ispirano, vip e personaggi famosi rischiano di amplificare la disinformazione online, cosa particolarmente pericolosa quando in gioco ci sono temi legati alla salute pubblica o individuale. Anche prima della pandemia, del resto, non era raro incappare, per esempio, in diete detox o iperproteiche consigliate dalle star, ma tutt’altro che equilibrate da un punto di vista nutrizionale.

Comunicare temi come questi, comunicare la scienza online non è mai facile, figurarsi durante un’emergenza sanitaria dalle dimensioni e dagli effetti imprevisti. Loro malgrado, così, la BCC include tra chi ha diffuso più fake news sul coronavirus anche i cosiddetti «insider», ossia addetti ai lavori e nel caso specifico medici, infermieri, ricercatori. Il caso più lampante è, senza dubbio, quello del premio Nobel per la medicina Luc Montagnier: non nuovo a dichiarazioni controverse, ha sostenuto che la parziale somiglianza del genoma del coronavirus con quello dell’HIV fosse la prova della sua fuga dal laboratorio di Wuhan. Naturalmente molte sono le tesi che hanno smentito le dichiarazioni del medico, ma a ben guardare l’eccessiva mole di informazioni che circola su giornali, siti d’informazione online, blog , social network è niente rispetto alla quantità di studi e ricerche sul coronavirus pubblicati sulle riviste scientifiche in pre-print e cioè, semplificando molto, senza il normale processo di revisione. Gli sforzi di science influencer e health influencer e, più in generale, di divulgatori ed esperti di scienza nel dare informazioni utili e corrette da un punto di vista scientifico, così, non hanno evitato loro in qualche caso scivoloni o di essere veicolo di disinformazione.

Difficile pensare che avessero un qualsiasi interesse economico nel farlo, al contrario di quanto si possa dire invece dei truffatori. Durante la quarantena sarebbe aumentato, infatti, il numero di cyber-reati come attacchi informatici, phishing , diffusione di virus: più tempo passato online dagli utenti, del resto, deve aver allettato i truffatori informatici con la maggiore possibilità di guadagno.

Per aggirare le proprie vittime, va da sé, questi stessi truffatori online hanno spesso fatto impiego di bufale e notizie false, come sull’ipotesi di un prelievo forzoso da parte delle banche italiane sui conti correnti dei clienti che circolavano all’inizio del lockdown.

Se anche i politici hanno creato disinformazione durante la pandemia

Il premio di chi ha diffuso più fake news sul coronavirus andrebbe, comunque, secondo la BBC ai politici. La stessa emittente non molto tempo fa aveva nominato Trump, Bolsonaro e Salvini i leader che hanno diffuso più bufale sulla pandemia. Le bugie dette dai politici sull’emergenza coronavirus sono anche le più varie sia nella natura e sia per pericolosità sociale: spaziano, solo per fare qualche esempio, dalla storia del Meccanismo europeo di stabilità (il tanto discusso MES) al numero di morti, passando per la possibilità di iniettarsi del disinfettante, per la bevanda a base di erbe e per gli innumerevoli rimedi, ovviamente tutti non testati e non ufficiali, anti-COVID-19.
Va da sé che girare le notizie a proprio favore o manipolarle ad arte è lavoro da spin doctor e, nella maggior parte dei casi, tanto più se si adotta una prospettiva come quella della campagna elettorale permanente in cui (quasi) tutto è ammesso, può far parte di una strategia di comunicazione politica . Più controverso è valutare che effetti tutto ciò abbia sulla qualità del discorso pubblico, per di più in un momento critico come quello di un’emergenza sanitaria globale. Due studi suggeriscono qualcosa di interessante in questo senso: secondo Nieman Lab, l’amministrazione Trump è stata la seconda fonte d’informazione più comune per gli americani durante la pandemia dopo i social network; però chi si è informato primariamente seguendo le notizie veicolate da Trump sarebbe più propenso a prestare attenzione agli effetti economici della pandemia – stando ai dati del PEW Research Center – e alle risposte e alle azioni messe in atto dall’amministrazione, ma soprattutto sarebbe convinto che l’emergenza coronavirus sia stata sovrastimata dai media (su questa affermazione è d’accordo il 51% del campione in questione) o, comunque, non trattata davvero accuratamente da quest’ultimi (per quasi il 24%).

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Trump e il proprio staff sarebbero stati la seconda fonte di informazione primaria per buona parte della popolazione americana. Fonte: Nieman Lab

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Tra chi, durante l’emergenza coronavirus, si è affidato soprattutto alle informazioni diffuse da Trump e il suo staff cresce sensibilmente la probabilità di considerare “esagerata” la copertura mediatica della stessa. Fonte: Pew Research Center

Come a dire, insomma, che se la disinformazione è veicolata da un politico aumentano le probabilità che l’effetto framing si faccia più un tentativo di manipolare l’opinione pubblica in una strategia di consenso.

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